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Elly una promessa più che una speranza
Congresso Pd: istruzioni per capirne il senso
Una divertente vignetta di Altan (apparsa su “Repubblica” del 12 dicembre scorso) rende bene la partita che si sta giocando con il congresso del Pd: “Il partito va smontato e rimontato”, dice l’operaio amico di Cipputi; “e il foglietto con le istruzioni?”, ribatte quest’ultimo (Cipputi, figura classica, ma forse fuori dal tempo: ci sono ancora operai che si preoccupano del “Partito”?). Ma a che punto siamo, davvero, con questo congresso? Cosa ci si può aspettare? Come interpretarne gli sviluppi? Proveremo qui a dare alcune nostre “istruzioni” per l’uso…
“Il congresso costituente del nuovo Pd”, così era definito un ordine del giorno approvato dalla Direzione nazionale del partito il 26 ottobre 2022: si leggono qui, appunto, le tappe del percorso congressuale. Com’è apparso subito evidente, si è trattato di un disegno farraginoso e bizantino, e da molte parti sono stati anche messi sotto accusa i tempi troppo lunghi. Il vero problema, però, non è stato questo, ma il cattivo uso che del tempo si sta facendo. Sulla carta, l’idea era semplice: una prima fase detta “costituente” in cui si sarebbe dovuto discutere del nuovo “manifesto dei valori”, e nel contempo dare tempo e modo di aderire a quanti, dall’esterno, volevano contribuire alla nascita del “nuovo Pd”; e poi la fase congressuale vera e propria, con la presentazione dei candidati, il voto degli iscritti e dei nuovi aderenti che seleziona i primi due, e ancora il ballottaggio (con le primarie “aperte” a tutti) il 19 febbraio.
Pd, di male in peggio
Elly Schlein, la candidatura che vuol essere un’onda
Si può essere ottimisti o pessimisti, sostenere che si tratta di un tentativo velleitario, o invece assolutamente necessario per un Partito democratico in perenne crisi di identità, tanto da farsi sottrarre sempre più consensi da Conte nei sondaggi. Ma la candidatura di Elly Schlein – già organizzatrice di OccupyPd, ex europarlamentare, ex vicepresidente dell’Emilia-Romagna con la presidenza Bonaccini, e deputata ora iscritta al Pd per poter correre alle primarie – rappresenta senza dubbio una novità, e potrebbe essere in grado di arrestare l’emorragia di consensi che affligge il partito. Nell’affollata assemblea di domenica 4 dicembre, “Parte da noi”, tenuta al Monk di Roma, c’era una folla di sinistra che non si sente rappresentata da nessuno, e una significativa presenza di amministratori legati al territorio: tra gli altri, il sindaco di Arquata del Tronto, cittadina ancora in rovina dopo il sisma del 24 agosto 2016.
La storia di Elly Schlein è singolare e internazionale, non esattamente legata a istanze popolari. Un curriculum che ha fatto storcere più di un naso, considerando molti, la sua, una vicenda elitaria. Come se – va ricordato – i dirigenti del Pd fossero legati mani e piedi alle masse. Il nonno materno, Agostino Viviani, era un noto avvocato senese antifascista, mentre il nonno paterno, Harry Schlein, era emigrato negli Stati Uniti da una famiglia di origine ebraica dell’Europa orientale. Elly si è impegnata come volontaria durante la campagna elettorale dell’ex presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Il 13 maggio del 2013 fu una delle organizzatrici di OccupyPd, una veemente protesta contro il vergognoso siluramento dell’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, in corsa per il Quirinale, da parte di 101 grandi elettori targati Pd, i cui nomi non sono mai stati resi noti, anche se provenivano da ben determinate correnti del partito. In aperto dissenso con la segreteria di Matteo Renzi, uscì dal partito, e nel 2020 sostenne, con la sua lista “Emilia-Romagna coraggiosa”, la candidatura di Stefano Bonaccini alla presidenza della Regione, che si affermò contro la leghista Lucia Borgonzoni. Nell’occasione, Schlein prese ben 22mila preferenze.
Bonaccini, uno da non votare
Dunque il presidente della Regione Emilia-Romagna ha varcato il Rubicone. Da Campogalliano, sede del suo circolo Pd, ha lanciato la propria candidatura all’interno di un percorso congressuale che, molto probabilmente, lo vedrà incoronato segretario. Com’è noto, zero speranze che il Pd possa cambiare: il fatto stesso che nessuno dei dirigenti o dei militanti ponga la questione principale – “perché abbiamo buttato a mare, per appiattirci sul governo Draghi, un’alleanza con i 5 Stelle che sembrava strategica? perché abbiamo partecipato alle elezioni senza neppure tentare di sbarrare la strada a una destra, che pure dichiaravamo di ritenere pericolosa?” – la dice lunga sulla inutilità di un congresso che, alla fine, si ridurrà all’ennesimo cambio di segretario. Senza che neppure sia posto il problema del meccanismo perverso delle cosiddette primarie, che servono semplicemente a far vincere chi, in quel momento, ha il favore della maggior parte dei media, oltre che l’appoggio di un certo numero di capicorrente.
Non è neanche vero che per andare al governo si debba arrivare primi alle elezioni: favola di una finta autocritica che gira parecchio negli ambienti Pd, e che Bonaccini ha ripetuto. In una democrazia parlamentare come la nostra, le maggioranze si costruiscono con delle trattative e dei compromessi; l’illusione “maggioritaria” dovrebbe essere tramontata da tempo, visto che il Pd può essere, tutt’al più, il perno di un’alleanza, non un partito che arriva a conquistare la maggioranza da solo. La domanda da porre sarebbe: perché il Pd “renzizzato” non fece da subito, nel 2018 (quando era il secondo partito in parlamento, del resto proprio come ora), un accordo con i grillini, così da evitare un anno di governo qualunquo-leghista come il Conte 1? Perché dare spazio, fin da allora, alla destra? E ancora: dopo un complicato percorso di legislatura, perché finire, con la segreteria Letta, allo stesso punto in cui si era con la segreteria Renzi? Dove starebbe la differenza, in questo gioco dell’oca? Ma rispondere a queste domande significherebbe ammettere che Renzi non è stato un errore fugace del Pd ma un morbo di fondo, che si palesò dapprima nella scalabilità del partito da parte di un avventuriero, e poi perfino in un narcisismo leaderistico (del genere “mi si nota di più se partecipo o se non partecipo?”). Un disastro a cui presero parte i renziani ancora oggi nel partito, e con loro il divo Franceschini, sostenitore di Renzi ai tempi della sua resistibile ascesa.
Previsioni sulla legislatura che sta per aprirsi
È piuttosto improbabile che il governo di Giorgia Meloni riesca a durare cinque anni e a condurre a termine la diciannovesima legislatura repubblicana. Su questo, come si sa, puntano tutto gli improvvisatori Calenda e Renzi per potere venir fuori con il loro “ecco, l’avevamo detto noi!”. Del resto Renzi è un consumato playmaker di giochini parlamentari: nella legislatura appena trascorsa ha reso possibile il governo Conte 1 (quello dei grillini con la Lega) grazie al suo intransigente non possumus, salvo poi transigere l’anno seguente alleandosi proprio con i grillini (il Conte 2), provocando una scissione nel gruppo del Pd, e diventando così l’ago della bilancia al Senato. Il che gli ha permesso di affossare Conte tirando fuori dal cappello Draghi (diventato poi il beniamino anche di Letta), secondo i desiderata della Confindustria e di altri. Insomma Renzi, e Calenda con lui, sono i signori delle “larghe intese”. Peccato che con il loro 8% scarso alle elezioni, con una ventina di deputati e solo nove senatori, non siano determinanti da nessuna parte. Sarà per la prossima volta.
Il pallino di questa legislatura è nelle mani di Berlusconi (almeno finché si trascinerà in vita). Come avevamo scritto qui, d’altronde, Giorgia Meloni è postfascista non meno che postberlusconiana; anzi più la seconda cosa che la prima, a dire il vero. Nel prefisso “post-” sono impliciti alcuni dei tratti di quello che c’era in precedenza: se l’estrema destra europea ricicla alcuni degli elementi dei fascismi storici, ciò non vuol dire che non innovi anche un po’ (si pensi, per dirne una, al “femminismo” di Meloni, alla sua decisione nell’affermarsi, qualcosa di sconosciuto ai tempi di Mussolini). In modo analogo, il governo Meloni sarà differente dai governi Berlusconi del passato: ma ne sarà anche, sotto più di un profilo, la prosecuzione. Il berlusconismo può essere camaleontico – cioè una cosa e il suo contrario – almeno quanto seppe esserlo il fascismo: quel populismo mediatico, che sdoganò i vecchi arnesi del Movimento sociale per i propri interessi più aziendali che politici (nel 1994), può ergersi adesso a difensore di una moderazione “europeista”.
Dalla parte delle Sardine
Le Sardine, con le loro piazze affollate, sono state una delle non molte cose positive a cui abbiamo assistito in Italia negli ultimi anni. Purtroppo sono state ricacciate indietro dalla pandemia. Nel novembre 2019, quando il virus probabilmente già circolava in Lombardia, mi è capitato di ritrovarmici in mezzo nella metropolitana milanese (erano di ritorno da una manifestazione) e ho avuto un immediato moto di simpatia nei loro confronti, dicendomi: “Beh, per fortuna non tutta Milano si riduce al rito dell’apericena”. Ciò che mi piaceva, e mi piace ancora, è il loro deciso accento antisovranista: qualcosa in cui fino a un anno fa non era più facilissimo imbattersi neppure a sinistra, sebbene oggi, dopo l’assegnazione dei fondi europei, la situazione stia cambiando. Ma i movimenti, compresi quelli neppure troppo radicali ma della cittadinanza attiva, hanno bisogno degli assembramenti come dell’aria per respirare. Se togliete loro la piazza, che ne è del conflitto – ideale o politico, o tutt’e due le cose insieme – che sarebbero capaci di innescare? Si sarebbe mai potuto immaginare un movimento giovanile e studentesco, come quello che ci fu nel 1968 e dintorni, nel pieno di una pandemia? E i cortei interni degli operai di Mirafiori, per non parlare degli scioperi sia ordinari sia “a gatto selvaggio”? Ve le vedete le assemblee tra operai e studenti via Zoom?