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Pd, di male in peggio

Una fase pre-congressuale surreale, sull’orlo della scissione

2 Gennaio 2023 Vittorio Bonanni  641

Ritorno al passato. È questo lo scenario, se possibile ancora più disastroso, che si profila all’orizzonte del Partito democratico che, a quasi sedici anni dalla sua nascita, deve prendere atto che quell’operazione, quella “fusione a freddo” tra ex comunisti ed ex democristiani è fallita. Diciamo questo perché, nel corso di questa surreale fase pre-congressuale caratterizzata piuttosto che da un profondo quanto necessario dibattito, dall’ennesimo proliferare di candidature per le primarie del 19 febbraio – che, singolarmente, saranno organizzate in due momenti diversi: il primo riservato agli iscritti, il secondo allargato a tutti per il ballottaggio tra i due candidati più votati –, è emersa con forza l’insofferenza, da parte di coloro che diedero vita alla Margherita, nei confronti degli ex diessini (o ex comunisti).

Si prende atto, se mai ce ne fosse stato bisogno, che quell’operazione politica realizzata con “un insieme di avanzi di partito il cui unico collante è stato il potere”, come disse il filosofo Massimo Cacciari, non ha più alcuna ragion d’essere. A minacciare la scissione, è stato l’ultimo segretario del partito postdemocristiano, Pierluigi Castagnetti, silente da anni, ma che ora è uscito allo scoperto timoroso di un’eventuale svolta a sinistra del Nazareno – in realtà del tutto necessaria per ridare un minimo di vigore a una formazione politica unica nel suo genere in Europa, che si rifà impropriamente ai democratici statunitensi la cui storia, com’è noto, è completamente diversa.

Il fronte moderato contro quello progressista non poteva trovare alleati migliori negli ex renziani di “Base riformista”, e nello stesso ex segretario del partito Matteo Renzi, che proviene da quella stessa tradizione democristiana. Secondo il leader di Italia viva, che si muove come se fosse ancora all’interno del Nazareno, se il Pd dovesse archiviare la “Carta dei valori del 2007”, che il segretario Enrico Letta vorrebbe sostituire con un “Manifesto dei principi e dei valori fondanti del partito”, potrebbero venir meno i riferimenti naturali della cultura veltroniana, ovvero il riferimento agli inquilini (o ex tali) della Casa Bianca, da Clinton a Obama, fino a Biden. Un’ipotesi che potrebbe significare l’emarginazione di questa non ben definita melassa “riformista”, dall’identità confusa, visto che il Partito democratico americano non ha al suo interno alcuna componente cattolica, e riesce a esprimere, piuttosto, una sinistra “radicale”, quella di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez, le cui posizioni in Italia troverebbero cittadinanza nelle formazioni di Fratoianni o Bonelli. Ma tant’è. L’importante è rimescolare le carte e rinforzare il “terzo polo”, con l’eventuale arrivo di quei cattolici che, nel 2022, hanno riscoperto una sorta di anticomunismo.

A mettere ulteriore carne al fuoco, è arrivato il Qatargate che gli ex dc e alleati strumentalizzano, perché in quel pantano sono finiti solo ex comunisti e nessuno proveniente dalla Dc. Sia pure non in modo esplicito, a condividere la chiamata alle armi della destra piddina è il candidato favorito alle primarie, Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna – ex Pci ed ex Pds, ex, ma fino ad un certo punto, renziano – che guarda con orrore al riemergere del conflitto capitale/lavoro, che condurrebbe, secondo lui, il partito in una posizione minoritaria e ottocentesca; mentre, al contrario, il problema delle disuguaglianze sociali legate soprattutto alla precarizzazione del lavoro è l’emergenza di tutti i giorni, da decenni, che nessuno intende rappresentare, come denuncia da tempo il segretario della Cgil, Maurizio Landini.

Ma chi tormenta i sonni di Castagnetti o Parisi – il quale, sprezzante del ridicolo, ha addirittura puntato l’indice contro chi vorrebbe riportare il Pd alla Livorno del 1921 – e degli amici di Renzi rimasti nel Pd? Degli ex inquilini di Botteghe Oscure abbiamo già detto. Ci sarebbe la novità, l’ex vice di Bonaccini, oggi deputata del Pd, Elly Schlein, anch’essa candidata alle primarie. Una figura al di fuori di qualsiasi riferimento alla tradizione comunista – tanto che alla domanda “che cosa pensa del Pci?” ha risposto facendo il verso a Meloni, dicendo che lei allora non era ancora nata –, rappresentante di una sinistra più attenta ai diritti civili e ambientali che a quelli del lavoro. Tra i tanti interrogativi, viene da chiedersi in che cosa si differenzi dal suo “principale”, visto che hanno lavorato insieme fino a ieri senza apparenti dissensi: ma ciò fa parte di quella narrazione confusa tipica del partito. Un’altra perplessità riguarda gli interlocutori che ha trovato all’interno del Pd. Desta stupore la scelta di Francesco Boccia come coordinatore della sua mozione congressuale, che nel frattempo, però, è stato congelato e molto probabilmente, dopo le primarie, non avrà alcun potere decisionale. A questo si aggiunga l’anomalo endorsement dell’ex Dc ed ex Margherita, Dario Franceschini (su cui vedi qui), considerato, al pari del segretario Enrico Letta, come un traditore dai suoi ex amici di partito. Ci sono poi Antonio Misiani e Andrea Orlando, quest’ultimo rappresentante di quella sinistra Pd ex comunista, la quale tuttavia non si è schierata interamente con la giovane candidata, che qualcuno da quelle parti non vede con grande simpatia. Lo dimostra la stessa poco comprensibile candidatura di Gianni Cuperlo, che rischia di togliere consensi a Schlein favorendo Bonaccini, mentre la presenza di Paola De Micheli non dovrebbe condizionare più di tanto le altre candidature.

Come pensa di uscire il partito da questo “teatro dell’assurdo” (senza offesa per i suoi grandi protagonisti, Beckett o Ionesco) è una domanda alla quale nessuno saprebbe rispondere. Possiamo solo azzardare delle ipotesi. Qualora vincesse Bonaccini, com’è probabile, la scissione a destra sarebbe scongiurata. Ma se Schlein dovesse riportare un risultato importante potrebbe anche essere tentata da avventure a sinistra, visto che da sconfitta non potrà giocare un ruolo decisivo nel partito. Se dovesse vincere, i Castagnetti e “riformisti” vari, questi di sicuro andrebbero a ingrossare le file del “terzo polo”; mentre la sinistra Pd, più gli eretici della Margherita, dovrebbe ritrovarsi a fianco di Schlein. Malgrado tutti i dubbi, quest’ultima ipotesi è l’unica che potrebbe ridare qualche chance al partito e a uno schieramento progressista arresosi senza combattere di fronte all’avanzata tutt’altro che inarrestabile della destra. Ma il pessimismo è d’obbligo, perché finora a prevalere sono ancora una volta i giochi di palazzo, che fatalmente hanno coinvolto anche Schlein.

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