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Dario Franceschini cuore pulsante del Pd

Riunitosi a Cortona con la sua corrente di AreaDem, Dario Franceschini ha detto una cosa che non ci piace e un’altra che al contrario ci piace molto. Ha ammonito Giuseppe Conte e i suoi di non azzardarsi a fare una crisi di governo, neppure a distinguersi passando all’appoggio esterno, perché ciò significherebbe la fine di ogni possibilità di alleanza. Perché poi? Una forza politica, pur responsabile, ha il diritto di rimarcare le proprie posizioni – sulla guerra, sul cosiddetto reddito di cittadinanza, sul salario minimo –, senza per questo dover finire in una specie di purgatorio. È vero che, distinguendosi, i 5 Stelle contiani potrebbero rubare qualche voto al Pd – ma di più potrebbero sottrarne all’astensionismo e a una protesta che, nel loro elettorato, si volgerebbe facilmente a destra. Tanto più che, volendo mettersi un po’ nei panni di Conte, lui ha la necessità, a maggior ragione dopo la scissione subita, di rivendicare una propria autonomia e una qualche continuità di ispirazione, se si pensa alla difficoltà di traghettare una formazione, già “antipolitica”, verso una collocazione progressista moderata a tinte – anche in questo caso – sostanzialmente di centro.

La cosa che ci piace molto, invece, è che Franceschini abbia aperto a un mutamento della legge elettorale in senso proporzionale. Ha detto: “Sarà difficile cambiare la legge elettorale ma dobbiamo provarci fino in fondo”. Probabilmente ha inteso svegliare il segretario Enrico Letta, che sembra dormire sonni tranquilli al riguardo (e non solo). Come abbiamo già avuto occasione di scrivere (vedi qui), il “campo largo” avrebbe modo di articolarsi molto meglio, e gli elettori sarebbero più motivati a uscire dall’apatia, se a ognuno di essi fosse data la possibilità di scegliere la propria lista, ciascuna con un programma ben definito da negoziare poi con gli alleati anche sulla base dell’esito delle votazioni. Inoltre, aspetto nient’affatto secondario, una proporzionale pura, sia pure con uno sbarramento, sarebbe la legge elettorale più in linea con il dettato costituzionale.

Il moderatismo italiano e i suoi destini

Un principio fatale regge i destini del moderatismo italiano, e lo si può esprimere così: “Per quanti sforzi facciate per collocarvi al centro dello schieramento politico, ci sarà sempre un altro che si posizionerà più al centro di voi”. È una sorta di centrismo sempiterno, quello scaturito dalla fine dell’unico partito che abbia coperto tutte le sfumature del centro per oltre quarant’anni: la Democrazia cristiana. Dopo di questa, c’è stata una diuturna corsa al centro da parte di partiti, partitini, o semplici frammenti. L’ultimo in ordine di apparizione ha preso il nome di “Insieme per il futuro”: e i malevoli già pensano che il “futuro” consisterebbe nel conservare almeno un posto di ministro in un prossimo governo, qualunque sia la maggioranza di cui quello sarà espressione (del resto, l’attuale responsabile degli Esteri ha già dimostrato, nella legislatura in corso, capacità indubbie al riguardo). Di Maio si posiziona un po’ più al centro rispetto a Conte – che pure è al centro, ma con qualche lieve inclinazione a sinistra. E nei confronti del povero Letta? Ancora più al centro, naturalmente.

C’è una difficoltà, però. Pare che sia in cantiere un’altra iniziativa, più centrista di tutti i centrismi possibili, che dovrebbe aggregare anche Renzi, e forse perfino l’amico-nemico Calenda (che di centro tuttavia non si autodefinisce), intorno al sindaco di Milano Sala, sponsor un imprenditore e deputato dallo specchiato curriculum centrista – Forza Italia-Scelta civica-Pd-Italia viva –, uno del varesotto che ci metterebbe i soldi. Si tratterebbe di una “cosa” più draghiana di quanto siano draghiani tutti gli altri. Che farà a quel punto il draghianissimo Di Maio? Sarà o no della partita?

Perché al “campo largo” potrebbe servire la proporzionale

La legge elettorale vigente, come si sa, concede alle segreterie dei partiti di decidere, preventivamente, quali saranno gli eletti e le elette. È questa senza dubbio una ragione per cui neanche Enrico Letta abbia mai pensato di cambiarla, come pure sarebbe stato necessario, adeguandola alla riduzione del numero dei parlamentari, e quindi al restringimento della rappresentanza, realizzata nel corso della legislatura (assecondando un’intenzione “antipolitica” grillina, ormai d’antan). Ma ce n’è un’altra, forse più importante: Letta è impegnato nella costruzione di una coalizione elettorale il più possibile ampia, e sa bene che la legge elettorale spinge, per non dire costringe, i gruppi minori ad allearsi. Nei collegi uninominali a turno unico, infatti (ricordiamo che il sistema prevede, in parte, un’elezione di tipo proporzionale, e in parte una di tipo maggioritario, senza possibilità di voto disgiunto), non si riuscirebbe a conquistare neppure un seggio in mancanza di alleanze; mentre per il proporzionale, com’è noto, è necessario superare uno sbarramento del 3%. Ora, come tenere insieme formazioni che sono o al di sotto di questa soglia (stando ai sondaggi) o in netto calo di consensi, come i 5 Stelle, e devono per forza di cose cercare di fare massa critica se vogliono ottenere qualche seggio con il maggioritario? La risposta a prima vista appare semplice: proprio con la legge elettorale vigente.

C’è però un piccolo problema che si chiama astensionismo (vedi il nostro articolo del 23 novembre scorso). Anche nella recente tornata elettorale, si è potuto constatare come i voti degli elettori un tempo grillini abbiano difficoltà a sommarsi con quelli del Pd all’interno di una stessa coalizione. A volere motivare gli elettori, si dovrebbe lasciarli liberi di scegliere la propria lista senza un’alleanza preordinata. Con una legge elettorale di tipo integralmente proporzionale, si guadagnerebbero dei voti che rafforzerebbero il tentativo di Conte di lasciarsi alle spalle definitivamente l’originario populismo, senza tuttavia rompere i ponti con il precedente rifiuto delle alleanze che aveva determinato molti, nel 2018, al voto grillino. Così il “campo largo” si costruirebbe in parlamento dopo le elezioni, eventualmente, e non prima con un sistema che limita la scelta da parte dell’elettore.

La giustizia non gioca a dadi

L’autogoverno dei magistrati ne garantisce l’indipendenza. E ha detto bene, nel 2007, il Consultative Council of European Judges del Consiglio d’Europa, nell’“Opinion” The Council...