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Zuppimania

È scoppiata la zuppimania. Dal momento in cui si è appreso che Francesco aveva nominato l’arcivescovo di Bologna presidente della Conferenza episcopale italiana, la zuppimania ha invaso prima i social, poi il web, le tv, i giornali. È un fenomeno che va capito, al di là dell’anomalia dei molti racconti basati sull’amicizia – indubitabile – tra gli autori e don Matteo. Colpiscono soprattutto quelli dei non credenti, quasi sorpresi di poter dire che conoscono un prete, sì, ma non pensavano che quel prete così diverso da altri avrebbe fatto carriera. La zuppimania va capita, per tanti motivi: il più profondo è se abbiamo e quanto abbiamo bisogno di una Chiesa amica, finalmente capace di capirci e, parlandoci, di farsi capire. Il più evidente è quanto non lo fosse quella che esiste, quella Chiesa sempre maestra e mai madre, che in tanti conoscono senza amarla né sentirsi amati da lei.

Chi scrive, da agnostico, ha potuto constatare che in Paesi remoti, esotici, ignoti, dove è arrivato da turista spaesato, l’unico posto in cui entrando si è trovato naturalmente in un ambiente familiare è stata sovente la chiesa del posto. Al di là della fede, quel luogo gli appartiene e riguarda tanti di noi. Ma se altrettanto può valere per le chiese o le cattedrali italiane, con la Chiesa italiana non funziona così. La Chiesa italiana, quella istituzionale, con la maiuscola, è lontana. Se nel volto dell’ultimo presidente, il cardinal Bassetti, molti hanno visto una trasposizione del parroco tradizionale, quello che tutti avrebbero potuto desiderare di avere nel loro paese d’origine, la struttura anche con lui è rimasta severa, chiusa, fredda. Come definirla? Senza volere offendere nessuno, una Chiesa ruiniana. Erano, tutto sommato, soltanto quindici anni fa.