
Una quarantina di persone – tra oppositori politici, giornalisti, imprenditori, avvocati – sono state condannate a pene molto severe, il 19 aprile scorso, al termine di un processo con l’accusa di “complotto contro la sicurezza dello Stato”. Per tredici “complottisti” le pene raggiungono i 66 anni di carcere, in un processo caratterizzato dalla sistematica violazione dei diritti della difesa, dalla mancanza di trasparenza e di informazioni, e da ricostruzioni del tutto improbabili dei fatti contestati.
Tra la ventina di condannati, in contumacia, figura anche il filosofo francese Bernard-Henry Lévy, a cui sono stati affibbiati 33 anni di prigione, senza che le imputazioni siano state rese pubbliche. Il verdetto stesso è stato pronunciato all’alba, in un’aula del tribunale senza giornalisti, osservatori indipendenti e rappresentanti della società civile. Il tutto era iniziato nel febbraio 2023, nella più totale opacità, con una raffica di arresti e di denunce nel quadro della legge antiterrorismo.
È l’ultimo atto di un regime, quello di Kaïs Saïed, diventato presidente nell’ottobre 2019 in un momento di crisi del sistema dei partiti, di cui aveva saputo sfruttare a proprio vantaggio la perdita di credibilità, per farsi proiettare alla testa dello Stato con un largo consenso popolare. Il consenso si è presto tradotto in un alibi per instaurare, a partire dal luglio 2021, con la sospensione del parlamento (vedi qui e qui), un sistema autocratico che, per mantenersi, è costretto a ridurre sempre più la libertà di espressione e di organizzazione.
Il processo è stato dunque un’evidente, anche se ben mascherata, manifestazione di debolezza del regime, spinto a soffocare qualunque contestazione. Due giorni dopo la fine del processo, uno degli avvocati, Ahmed Souab, è stato arrestato a sua volta per aver criticato la sentenza. I difensori dei diritti umani hanno manifestato ugualmente la scorsa settimana nelle vie di Tunisi il loro dissenso contro questo ennesimo arresto, sfidando la repressione. Sui social circolano le prese di posizione di giuristi e di docenti universitari, un tempo colleghi di Saïed, già professore di diritto costituzionale, che oggi respingono la sua deriva autoritaria.
Tra le reazioni internazionali, da segnalare la condanna del verdetto, e delle condizioni in cui il processo si è svolto, da parte dell’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, oltre a quelle delle Ong per i diritti umani. Condanne che sono state fermamente respinte dal regime come parte del complotto stesso. I governi europei, a cominciare da quello italiano, hanno taciuto; quello francese e quello tedesco si sono debolmente espressi.
L’Unione europea sta giocando infatti una partita importante con la Tunisia: sono in ballo i rimpatri e, su iniziativa di Roma, la definizione della Tunisia come “Paese sicuro”. Dopo questo ennesimo processo, e dopo l’ultimo rapporto di Human Rights Watch che denuncia l’abuso della detenzione provvisoria ben oltre i termini di legge, ognuno può giudicare il grado di sicurezza di un Paese il cui governo non ammette l’opposizione politica, e che intanto sta smantellando tutti i campi di immigrati illegali sul territorio tunisino, per rimandare loro nei Paesi africani di origine.
Una settimana fa, circa 2.500 migranti sub-sahariani sono stati cacciati da accampamenti di fortuna, dati alle fiamme e rasi al suolo con le ruspe, nella regione di Sfax. Il 6 maggio dell’anno scorso, dopo una riunione del Consiglio per la sicurezza nazionale, Saïed ha accusato i volontari dell’accoglienza di essere “traditori e agenti dello straniero”. Ne è seguita un’ondata di arresti di alcuni di loro, che si aggiungono ai militanti già in prigione con le stesse aberranti accuse. Il presidente aveva lanciato, a partire dal febbraio 2023, una violenta campagna contro i migranti, alimentando un clima di linciaggio nei loro confronti. La campagna ha coinvolto una parte della popolazione, a cui è stato fatto credere che i problemi del Paese vengono dal Sud. Malgrado una legge antirazzista varata nel 2018, di questa xenofobia sono vittime anche le persone tunisine di pelle nera, discendenti di antichi schiavi; le stime parlano di circa il 15% della popolazione.
La politica antimigratoria del regime ha il pieno appoggio dell’Unione europea, dopo il memorandum dell’estate di due anni fa. In Tunisia, come altrove, l’Unione sta dando forma a un modello di chiusura delle frontiere e di respingimenti che smantella definitivamente la cultura dei diritti umani e del diritto internazionale. Questa politica è del resto pienamente coerente con la demolizione dei fondamenti stessi del diritto come regolatore della vita civile e dei rapporti internazionali. Alle deportazioni di massa urlate da Trump, Bruxelles risponde con uno stillicidio di misure altrettanto liberticide – ma con pacatezza –, nella segreta speranza che non ci sia un giudice a Strasburgo, sede della Corte europea dei diritti umani, che le possa invalidare.