È la settimana dello sciopero generale dei lavoratori di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva di Taranto. Il tormento di un pezzo di vite di famiglie operaie del Mezzogiorno, cresciute, a partire dagli anni Settanta, con una cultura del lavoro che prima non conoscevano, portando acqua nel deserto della disoccupazione, alternativa concreta a un’economia della sopravvivenza fatta di sussidi e proventi più o meno leciti, e anche a un’economia criminale, per ritrovarsi a vivere oggi con l’angoscia di un futuro che non c’è. Giovedì 16 i lavoratori scenderanno in piazza. A Taranto, raggiungeranno in corteo il Palazzo di Città, il Comune.
La nuova amministrazione del sindaco Piero Bitetti è in prima linea contro il rigassificatore nel porto, non ha firmato l’accordo di programma che il governo voleva imporre, e bocciato anche la nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia), che concede altri dodici anni di “carbone” in attesa della trasformazione green degli impianti. Ma oggi è una ferita che sanguina, che fa male, il divorzio tra una città, Taranto, e la sua fabbrica. Non dipende solo dal fatto che l’unica terapia per rianimare il moribondo (il mostro che sputa lingue di fuoco) porta inevitabilmente a un’“apocalisse sociale” – più di settemila lavoratori del gruppo oggi Acciaierie d’Italia, morti e feriti – a fronte della sopravvivenza di soli duemila dipendenti. Sono questi i numeri drammatici con cui fare i conti, una volta riconvertiti gli impianti con la chiusura degli altiforni a carbone per lasciare il posto ai forni elettrici.
Tutto questo fa parte della cronaca di queste settimane tumultuose. Naturalmente ben consapevoli, i vari attori (sindacati, governo, amministratori locali, ambientalisti), che gli “scenari apocalittici” annunciati sono, per il momento, ipotetici anche se molto concreti. Ipotetici perché, al di là dei sussurri di corridoio, non c’è un atto ufficiale, una proposta concreta, un’analisi accennata da parte del governo. Nulla. Non si sa nulla di concreto. Persino il giornale della Confindustria, “Sole 24ore”, deve usare il condizionale per svelare che l’unica proposta emersa dalla gara “d’intenti” per acquisire Acciaierie d’Italia, la proposta del fondo americano “Bedrock Industries”, ipotizzerebbe per Taranto un’occupazione di duemila addetti, di mille per tutti gli altri impianti (tubifici) del Nord d’Italia. E c’è da aggiungere che il fondo americano farebbe una offerta nominale di un euro per divorarsi pezzi pregiati e ammassi arrugginiti del colosso siderurgico italiano che fu. Pretendendo (sempre ipoteticamente) ingenti risorse economiche per trasformare l’acciaieria a ciclo integrale da carbone-dipendente ad alimentazione a gas per i forni elettrici.
Eppure, alla ragionevole proposta del sindacato e di settori del centrosinistra di procedere con la nazionalizzazione dell’acciaieria, almeno fino a quando la riconversione green non sarà iniziata concretamente con i nuovi impianti di “preridotto” che sostituiranno il carbone, il governo, con il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, si è opposto.
E la fallimentare gestione degli impianti all’indiana ArcelorMittal sta adesso alimentando la possibilità di una querelle giudiziaria. Gli indiani chiedono un risarcimento di due miliardi e mezzo di euro di danni allo Stato italiano. Il ministro Urso ha controreplicato denunciando la gestione fallimentare di ArcelorMittal, che ha provocato danni per quattro miliardi di euro.
Ma quello che colpisce di più è il divorzio sentimentale, il voltarsi dall’altra parte di una parte della città.
Peppe Romano è il segretario regionale (Puglia) dei metalmeccanici (Fiom) della Cgil. La sua è una commozione che sconfina nella disperazione: “Proprio adesso che convintamente abbiamo abbracciato la soluzione della decarbonizzazione degli impianti per tutelare l’ambiente e la salute dei lavoratori e dei cittadini, una parte di Taranto preme per l’eutanasia della fabbrica, per la chiusura dell’acciaieria”.
È così. A Milano, giovedì scorso, i giudici hanno chiuso il dibattimento, entro un paio di mesi dovranno emettere la loro sentenza. Dovranno decidere se imporre la chiusura della fabbrica. A loro si erano rivolti cittadini e l’Associazione genitori tarantini, per lo stop agli impianti ex Ilva. La Corte di giustizia europea, nel giugno del 2024, si è già pronunciata per la chiusura di quegli impianti nocivi alla salute e all’ambiente. Insomma, occorre certificare la valutazione del danno sanitario. La tesi dei cittadini tarantini è arrivare alla sospensione della produzione per evitare altri danni e pericoli. Secondo i difensori dell’azienda, la nuova Aia ha tenuto conto della valutazione dell’impatto sanitario. Ora spetterà ai giudici sciogliere il dilemma.
Che clima d’angoscia e solitudine si avverte tra i lavoratori dell’ex Ilva e i cittadini. È come se regnasse l’incomunicabilità. Anzi la solitudine. Colpisce il silenzio del Pd, della segretaria Elly Schlein e del candidato alla presidenza della Regione, Decaro, che ancora non hanno detto nulla sul futuro dell’Ilva. Se appoggiano la decarbonizzazione e a quale prezzo. Se gli impianti di “preridotto” si devono costruire a Taranto o a Gioia Tauro.
Se una parte della società tarantina si è espressa per la chiusura dell’acciaieria e la bonifica dell’ambiente, la radicalizzazione delle posizioni sta portando a una crisi del “campo largo”. I 5 Stelle hanno chiesto all’amministrazione comunale di presentare ricorso al Tar contro l’Autorizzazione integrata ambientale. Il timore, però, è che presentare il ricorso potrebbe diventare il pretesto per il governo per addossare la responsabilità della chiusura sull’amministrazione comunale. Proprio oggi ne discute il Consiglio comunale.










