Prigioniero da oltre vent’anni, Marwan Barghouti resta il simbolo di una possibile unità palestinese. Leader carismatico di Fatah durante le intifade, figura rispettata anche da chi non condivide le sue posizioni, è l’uomo che potrebbe tenere insieme un popolo diviso tra Gaza e Cisgiordania. È in prigione dal 2002, quando Israele lo ha accusato di omicidio e condannato a cinque ergastoli. Dietro le sbarre, ha continuato a guidare le iniziative dei prigionieri, a mantenere contatti con la società civile, trasformando la sua condizione personale in una leadership condivisa. La sua popolarità attraversa fazioni e generazioni, collegando chi cerca rappresentanza politica e chi una guida morale, creando un consenso che nessuna divisione interna è riuscita a spezzare.
La frammentazione politica palestinese è storica, e Israele l’ha amplificata e sfruttata con calcolo. La separazione tra il governo della Cisgiordania, dominato da Fatah, e il controllo di Gaza, da parte di Hamas, indebolisce la società palestinese e complica le trattative internazionali. Ma, soprattutto, è utilizzata da Israele per giustificare operazioni militari con la scusa della lotta all’estremismo. È questa la narrativa che Tel Aviv sfrutta per difendere violenze, arresti e limitazioni della libertà.
Fatah resta il partito principale in Cisgiordania, radicato nelle istituzioni storiche dell’Olp e perno dell’Autorità nazionale palestinese, ma percepito come distante e corrotto, attento più a conservare le relazioni internazionali che a rispondere alle istanze popolari. Hamas governa Gaza con un controllo capillare, coordinando i servizi essenziali, e mantiene la lotta armata come elemento centrale della sua strategia. Il Jihad islamico palestinese è più militarizzato, concentrato su operazioni contro Israele e meno sulla gestione civile. I gruppi marxisti (il Fronte popolare per la liberazione della Palestina e il Fronte democratico per la liberazione della Palestina) perseguono ideali di giustizia sociale e mobilitazione, ma hanno un peso limitato nella politica quotidiana. Sigle minori operano come opposizione locale o forza di resistenza, accentuando la complessità e rendendo qualsiasi tentativo di unità un equilibrio fragile tra interessi diversi, pressioni esterne e rivalità storiche.
Una rappresentanza politica forte e unitaria sarebbe utile a unificare i territori palestinesi occupati (Gaza e Cisgiordania), aumentando la legittimità della rappresentanza, che troverebbe nuova forza nella negoziazione e maggiore riconoscibilità internazionale. L’unità è ostacolata da Israele, che preferisce una leadership debole e divisa. Gli arresti e le uccisioni di intere generazioni di possibili leader servono a delegittimare le rivendicazioni e le legittime aspirazioni del popolo palestinese.
Ma la rottura è anche interna. La recente notizia dell’incontro tra il vicepresidente dell’Autorità nazionale palestinese, Hussein al-Sheikh, e l’ex premier britannico Tony Blair, per discutere i piani postbellici su Gaza e l’implementazione del piano di Donald Trump, mostra quanto l’Anp sia pronta a subordinarsi agli interessi esterni, pur di conservare potere e fondi. Al-Sheikh ha dichiarato disponibilità a collaborare “per consolidare il cessate il fuoco, consegnare aiuti, liberare ostaggi e prigionieri e avviare la ricostruzione”, sottolineando l’urgenza di recuperare i fondi palestinesi trattenuti e di proteggere la soluzione dei due Stati. L’Autorità è disposta più o meno a tutto pur di dimostrarsi partner affidabile agli occhi degli Stati Uniti e dell’Occidente. È il tentativo di tenersi stretto quel minimo di potere e, soprattutto, i finanziamenti di cui è oggetto. Tutto ciò consolida la percezione di sudditanza ed è causa di perdita di fiducia e consensi tra i palestinesi. Da anni l’Anp ha accordi di collaborazione con Israele, rispondendo positivamente alle sue richieste: dagli arresti mirati alla limitazione della libertà di movimento, alle pressioni economiche e alle imposizioni politiche. La leadership palestinese appare più impegnata a conservare la propria esistenza amministrativa che a costruire un fronte unitario capace di rivendicare diritti e governance su tutta la Palestina. L’incontro con Blair, figura controversa per la sua responsabilità nell’invasione dell’Iraq nel 2003, simboleggia questo atteggiamento.
Barghouti è una figura in controtendenza rispetto a questa sudditanza. Aggrega consenso, media tra le fazioni e mantiene vivo il progetto di unità nazionale, opponendosi all’uso della divisione come strumento di controllo. La sua liberazione potrebbe rafforzare la rappresentanza palestinese, dare voce a una leadership credibile e creare le condizioni per un governo unificato capace di trattare con Israele e la comunità internazionale da una posizione di forza. Nonostante le richieste che Hamas ha fatto a Israele e ai negoziatori, Tel Aviv ha già annunciato che non intende liberare Barghouti, nello scambio di prigionieri e ostaggi previsto dal cessate il fuoco, confermando come l’occupante voglia continuare a indebolire la leadership palestinese più rispettata, per mantenerne il controllo e la divisione interna. Oltretutto, Barghouti di recente è stato vittima della violenza del ministro israeliano della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir. Il suprematista ebraico ha raggiunto il leader palestinese nella sua cella per minacciarlo e umiliarlo.










