L’Italia avrà prima o poi una legge sul suicidio assistito? La risposta è “ni”. Al Senato i relatori del disegno di legge sul fine vita, due esponenti della maggioranza governativa, hanno presentato i loro emendamenti al testo in discussione, senza andare troppo incontro alle critiche già espresse dalle forze di opposizione presenti in parlamento. Forze che su questi temi (come su quasi tutto il resto, per la verità) è difficile immaginare arroccate su posizioni estreme o anche solo radicali. Intanto, la scadenza per i subemendamenti, cioè per le proposte di modifica agli emendamenti dei relatori, è stata fissata con un certo comodo al 23 settembre, mentre sulla tempistica dei lavori incombe la minaccia della sessione di bilancio, che in genere blocca il percorso dei provvedimenti ordinari. Va ricordato che, all’origine del testo in discussione, c’è un disegno di legge di opposizione (primo firmatario Alfredo Bazoli del Pd) che prendeva le mosse da quello già esaminato, ma non portato a termine, nella scorsa legislatura.
Oggetto del provvedimento (del quale ci eravamo già occupati qui) è l’accertamento dei requisiti che devono avere i malati che chiedono di essere aiutati a morire per essere sicuri che chi li aiuta a farlo non vada incontro a conseguenze penali. Malati che devono essere in grado di esprimere la propria volontà ma non di eseguirla, in un perimetro che di fatto è stato delimitato dalla Corte costituzionale con la sentenza 242 del 2019, quasi sei anni fa. Fra le altre cose, i giudici delle leggi osservarono che “il divieto assoluto di aiuto al suicidio finisce per limitare ingiustificatamente nonché irragionevolmente la libertà di autodeterminazione del malato nella scelta delle terapie, comprese quelle finalizzate a liberarlo dalle sofferenze”. Stabilirono anche la centralità del Servizio sanitario nazionale nella procedura: è incostituzionale, si legge nella sentenza, la norma vigente “nella parte in cui non esclude la punibilità di chi (…) agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”.
Ignazio Zullo di Fratelli d’Italia e Pierantonio Zanettin di Forza Italia, i due relatori nelle commissioni riunite Giustizia e Affari costituzionali del Senato, hanno invece ribadito con nettezza, nelle loro ultime proposte, il divieto assoluto all’erogazione dell’assistenza al suicidio attraverso le strutture, il personale e i farmaci del Servizio sanitario nazionale. Hanno sostituito formalmente la loro precedente, e contestata, proposta di istituire un nuovo Comitato nazionale per la valutazione dei requisiti dei malati che faranno richiesta, con il già esistente Coordinamento dei comitati etici regionali per le sperimentazioni cliniche sui medicinali per uso umano e sui dispositivi medici previsto da una legge del 2017; coordinamento che però in questo caso andrebbe comunque integrato da altri componenti. In ogni caso – dicono le opposizioni –, nel rimbalzo fra il livello nazionale e quelli territoriali, la tempistica delle valutazioni delle domande rischia di allungarsi fino a centocinquanta giorni.
Punto decisivo dei testi dei relatori resta la dichiarazione di principio sulla inesistenza di un “diritto” a essere assistiti e il conseguente “no” all’utilizzo di strutture, farmaci e personale del Servizio sanitario nazionale; il che determina anche il rischio molto concreto di una selezione per censo: solo chi potrà permetterselo, una volta superate le forche caudine dell’esame dei comitati etici, pagherà uno specialista e potrà porre fine alle sue sofferenze. Ma chi può permetterselo, già adesso ha la possibilità di andare all’estero. Tutti gli altri si affideranno, se ci credono, alla misericordia di Dio. Ecco perché alla domanda se l’Italia avrà una legge sul fine vita la risposta più logica sembra essere “ni”, il che non esclude che in qualche modo possa trovare compimento la orgogliosa rivendicazione del presidente della commissione Affari sociali di palazzo Madama, Francesco Zaffini, senatore di Fratelli d’Italia: “La sinistra non è mai riuscita a fare una legge mentre il centrodestra la legge la farà”. Ma, nonostante la delicatezza del tema, rischia di essere una legge della sola maggioranza, visto che le voci che si sono levate dalle opposizioni hanno indicato come “più lontane” le ipotesi di una mediazione.
Dietro le barricate normative delle destre, ci sono le pressioni delle lobby cattoliche più oltranziste, e in generale la rigidità dottrinaria della Chiesa sui temi etici. Ma non si deve immaginare un esercito di rozzi fanatici crociati: sarebbero forse più facili da sconfiggere, se non altro perché nel 2025 anche le forze di destra devono fare i conti con una sensibilità maggiore della popolazione su questi temi. Nel campo di chi avverte dei rischi che sono connessi a una possibile legge sul fine vita, ci sono invece posizioni di grande raffinatezza. Un esempio molto interessante, per la competenza tecnica e la capacità narrativa messa in campo, si legge sul quotidiano dei vescovi italiani “Avvenire”, con la firma di Matilde Leonardi, neurologa, docente dell’Università cattolica e componente del Comitato nazionale per la bioetica. Il cuore del ragionamento della scienziata è che, in alcune malattie, la volontà suicidaria viene indotta da alterazioni neurologiche o neurofisiologiche, e quindi da una distorsione patologica dell’umore che devia la capacità “di prendere decisioni libere e consapevoli”, indicata dalla Consulta come la base per esercitare il diritto all’autodeterminazione del malato. L’autrice dell’articolo immagina una scena sul modello evangelico della scelta della folla tra Gesù e Barabba: in questo caso si tratta di due aspiranti suicidi. Il primo è il famoso attore Brad Pitt: quando manifesta il proposito di togliersi la vita, la folla si oppone e lo convince a desistere; il secondo è un disabile, nei cui confronti la folla è più comprensiva e lascia che compia il suo gesto. “Ecco il pregiudizio che attraversa la nostra società: la vita malata, fragile, è percepita come meno degna di essere difesa”, scrive la scienziata.
Si vorrebbe naturalmente credere alla buona fede di chi sostiene queste tesi, se non fosse che abbiamo letto a quale tipologia di persone la sentenza della Corte chiede che si riconosca la possibilità di mettere fine alle proprie sofferenze, quindi non si vede come il caso di un ipotetico Brad Pitt possa rientrare nel ragionamento. Il rischio concreto è invece quello di considerare la “vita malata, fragile”, per usare le stesse parole dell’articolo di “Avvenire”, meno degna di decidere per se stessa.
Insomma, magari alla fine la legge verrà fatta: ma ai malcapitati latori di una richiesta di autorizzazione per il suicidio assistito, i quali vorranno documentare che stanno troppo male per andare avanti, potrebbe essere fatto notare (dalle competenti autorità riunite nel Coordinamento dei comitati etici) che stanno troppo male perché la loro scelta possa essere giudicata libera e consapevole; e che la loro richiesta non è la rivendicazione di un diritto ma la manifestazione di un sintomo. Con tanti saluti alla sentenza della Consulta e alla “libertà di autodeterminazione del malato”.








