Prabowo Subianto scherza col fuoco. Dopo le violente proteste dell’inizio del mese di settembre contro la corruzione, le misure economiche e sociali prese dal governo e l’invadenza dell’esercito (temi che affronteremo più avanti), il presidente sembra ignorare le ragioni della rivolta che ha provocato tremila arresti tra i manifestanti e la morte di otto persone, preoccupato com’è di ridare spazio alle forze armate, prospettando così un minaccioso ritorno al passato, attraverso nuove leggi che spostano determinate funzioni dai civili, appunto, ai militari. Non esattamente la risposta più adeguata alle proteste organizzate in particolare dai giovani, che dovrebbero rappresentare il futuro del più grande Stato islamico del mondo.
Il presidente Prabowo Subianto è già stato ministro della Difesa dal 2019 al 2024, sotto il governo del presidente Joko Widodo, in carica dal 2014 al 2024 (vedi qui), che, malgrado l’apparente moderazione sia come politico sia come islamico, non aveva esitato a reprimere pacifiche manifestazioni ambientaliste, e ad approvare leggi islamiche integraliste. Prabowo, già comandante del Kopassus (Forze speciali indonesiane), fa parte del Partito del movimento della grande Indonesia, di destra nazionalista, da lui fondato nel 2008. È un conservatore tradizionalista sostenuto dai gruppi islamisti radicali, alcuni dei quali vicini a Jemaah Islamiyah, movimento sunnita considerato terroristico. L’ex moglie del presidente è la figlia del generale Suharto, dittatore dell’Indonesia dal 1965 al 1998. Il suo governo mise in atto una feroce repressione contro l’opposizione, uccidendo tra i cinquecentomila e i tre milioni di militanti e simpatizzanti comunisti. Una sorta di genocidio politico sostenuto dalla Gran Bretagna e dagli Stati Uniti.
Prabowo aveva già cominciato la sua opera di rafforzamento delle forze armate quando era ministro di Widodo. Prima del 20 ottobre 2024, giorno del suo arrivo a Palazzo Merdeka, aveva fatto pressioni per permettere ai militari di assumere incarichi importanti in settori cruciali delle istituzioni, come per esempio agenzie governative contro il terrorismo e il narcotraffico, cancellando di fatto un’importante legge del 2004, che vietava l’intromissione nella vita pubblica dei militari.
Nell’anno in corso, il presidente ha affidato alle forze armate la distribuzione di cibo gratuito a milioni di bambini – non proprio gestita nel migliore dei modi, visto che a migliaia sono rimasti gravemente intossicati a causa del cibo avariato. La gestione di questo comparto ha significato per i militari gestire ventotto miliardi di dollari, probabilmente non senza ricavarne vantaggi personali. L’esercito si occupa anche dell’irrigazione dei campi nelle aree periferiche del Paese, dove si coltivano riso e mais. Come informa la testata online “Il Post”, “ad agosto Prabowo ha annunciato la creazione di cinquecento nuovi battaglioni nei prossimi cinque anni, la più grande espansione dell’esercito in Indonesia degli ultimi decenni. Secondo i piani del presidente – sostiene “Il Post” –, i nuovi militari saranno destinati a compiti esclusivamente civili. Per il progetto, rispetto all’anno scorso, il governo ha proposto un aumento del budget dedicato alla Difesa del 37%, equivalente a più di tremila miliardi di rupie, circa diciotto miliardi di euro.
È del tutto evidente che, dietro questo approccio da protezione civile, si nasconde il tentativo di garantire alle divise indonesiane un potere maggiore. Il protagonismo dei militari sullo scenario politico dell’arcipelago non è certo una novità, visto che, fin dall’indipendenza dall’Olanda, era presente l’idea che il potere civile, da solo, non ce l’avrebbe fatta a governare il Paese. Ma non è difficile capire come, avendo le forze armate il monopolio della violenza, possano gestire il rapporto con i vari esecutivi da una posizione privilegiata. L’interazione tra i due poteri è detta, in Indonesia, dwifungsi. “Nell’idea del generale indonesiano Abdul Haris Nasution – informa ancora “Il Post” –, che parlò per primo di questo concetto in un discorso pubblico del 1958, l’Indonesia avrebbe dovuto percorrere una sorta di strada di mezzo tra due modelli: l’esercito non doveva essere né un semplice strumento del governo civile, come avveniva e avviene in Occidente, né essere completamente sovrapposto al potere politico, come nei regimi militari dell’America latina”. Una terza via che però, nel caso del generale Suharto, si trasformò in un sanguinoso dominio dei militari, non diversamente da ciò che avvenne nel continente latinoamericano. Con l’uscita di scena del golpista, la nuova classe politica indonesiana avviò una serie di riforme, che limitavano la presenza dell’esercito all’interno delle istituzioni e dell’economia del Paese, misure che rischiano ora di essere cancellate del tutto.
Abbiamo accennato alla rivolta studentesca e giovanile, che ha scosso l’Indonesia nei primi giorni di settembre. Come spesso succede, a far esplodere le proteste è stato un evento apparentemente marginale: la notizia che stava per essere approvato un bonus di cinquanta milioni di rupie, circa tremila dollari, a favore dei parlamentari – che già guadagnano mensilmente cento milioni di rupie, cioè seimila dollari –, per pagarsi l’alloggio e altro; è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, considerando che un cittadino indonesiano guadagna 3,1 milioni di rupie. E questo in un Paese in piena austerità economica, con un’inflazione crescente, da un lato, e con tagli annunciati alla sanità, all’istruzione e alle infrastrutture pubbliche, dall’altro. A fronte delle violente proteste popolari, sono stati ridotti i benefit economici dei deputati e cancellato il contestato bonus: concessioni accompagnate, però, dalla minaccia di usare il pugno di ferro nel caso di una prosecuzione delle manifestazioni.
Non mancano problemi sul fronte economico: “Prabowo – dice Paola Morselli, ricercatrice presso l’Ispi (Istituto studi politica internazionale) su temi relativi all’estremo Oriente – aveva promesso di rilanciare il Paese con un tasso di crescita annuo dell’8%, un obiettivo che si sta rivelando irrealistico. Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, il Pil indonesiano crescerà del 4,8% nel 2025, ben al di sotto delle aspettative”. A rendere più complicata la situazione economica del grande Paese asiatico, è la questione dei dazi. “Sul Paese, la cui economia ha tratto vantaggio dalla recente rilocalizzazione delle catene del valore, in seguito alle tensioni commerciali tra Cina e Stati Uniti – sostiene Morselli – iniziano ora a pesare anche le nuove barriere protezionistiche. In particolare, il presidente statunitense, Donald Trump, ha imposto un dazio generalizzato del 19% sulle merci importate dall’Indonesia, colpendo duramente settori chiave come l’elettronica, il tessile e l’agroalimentare. Queste misure rischiano di compromettere la crescita indonesiana, mentre il Paese cerca di uscire da una fase di rallentamento”.
Viene allora da sé che, come altri Paesi non occidentali, l’Indonesia sia attirata dai Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), sia per allontanarsi da Washington sia per accreditarsi come una potenza economica emergente. Giacarta ha fatto richiesta, nel gennaio scorso, di entrare ufficialmente nel gruppo presieduto, nel 2025, dal Brasile. Una mossa intelligente, da un lato, ma rischiosa dall’altro, nella misura in cui fatalmente il rapporto ancora importante con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti, potrebbe diventare più conflittuale, finendo con l’inglobare Giacarta nell’orbita cinese.
Questo scenario si era già presentato ai tempi della presidenza di Widodo, attirato dai Brics ma preoccupato da un eccessivo sbilanciamento verso la Cina. E tuttavia l’ingresso nei Brics – osserva ancora Morselli – “offre nuove opportunità per rafforzare l’economia dell’Indonesia e consolidare il suo ruolo internazionale. Il Paese spera di beneficiare dell’accesso a nuove iniziative economiche e infrastrutturali promosse dal gruppo. Inoltre, Cina e India importano, rispettivamente, il 26% e l’8% dell’export totale indonesiano. Entrare nei Brics potrebbe quindi rafforzare questi legami economici. Il futuro dell’Indonesia appare dunque particolarmente incerto. Siamo dinanzi a una deriva autoritaria che potrebbe provocare altre proteste, con una conseguente sanguinosa repressione; e c’è un Paese molto legato all’Occidente, in particolare agli Stati Uniti, che l’aggressiva politica di Trump sulla questione dei dazi sta spingendo verso chi rappresenta il 45% della popolazione mondiale e produce un terzo del Pil globale”. Una politica di equilibrismo che, se riuscisse, rafforzerebbe la posizione di Subianto, il quale, nonostante tutto, gode ancora di notevoli consensi.









