
All’indomani dell’ultimo verdetto giudiziario sull’assassinio del giovane geometra romano Stefano Cucchi, occorre fare un bilancio sullo stato dell’attacco portato avanti dalla destra alle tutele contro le violenze delle forze dell’ordine.
Lo scorso 16 luglio, si è chiuso con due condanne e un’assoluzione un altro capitolo doloroso della lunga vicenda giudiziaria legata alla morte di Stefano, avvenuta nel 2009 a seguito di un violento pestaggio subìto mentre era in custodia dei carabinieri. Il tribunale monocratico di Roma ha condannato due militari dell’Arma per falso e depistaggio, reati commessi durante le indagini sul caso. Il capitano Prospero Fortunato è stato condannato a quattro anni di reclusione, mentre il maresciallo Giuseppe Perri sconterà tre anni e sei mesi. Entrambi avevano scelto il rito abbreviato, usufruendo dunque dello sconto di un terzo della pena. Il terzo imputato, Maurizio Bertolino, maresciallo in servizio alla stazione dei carabinieri di Tor Sapienza all’epoca dei fatti, accusato di avere mentito sull’esistenza di un dossier sul caso custodito nella stazione di Tor Sapienza, è stato assolto con formula piena “perché il fatto non sussiste”, non essendo state ritenute sufficienti le prove a suo carico. Il capitano Fortunato falsificò un memoriale di servizio per coprire i movimenti di due sottoposti, affermando falsamente che erano impegnati in servizi esterni, mentre uno era stato sentito in questura e l’altro lo aveva accompagnato; Perri, invece, rese dichiarazioni fuorvianti per ostacolare la verità durante i procedimenti successivi alla morte di Cucchi.
L’azione investigativa, condotta dal pubblico ministero Giovanni Musarò, è stata incessante e appassionata: l’attività di depistaggio “durata per anni, è stata ossessiva, ed è proseguita ininterrottamente dal 2009 al 2018, e in modo inaudito fino al 2021” – ha detto durante la sua requisitoria, spiegando che, mentre in aula proseguiva il processo, comparivano militari pronti a mentire: cioè, mentre altri loro colleghi erano sotto giudizio per i reati commessi, c’erano ufficiali che continuavano a depistare. Ricordiamo che la tragica morte ha dato vita a quindici processi, tre inchieste, due pronunciamenti della Cassazione, una prima sentenza di condanna di otto carabinieri per i depistaggi nell’aprile del 2022, a cui è seguita quella recentissima che delinea un’attività di depistaggio nel depistaggio.
A fronte di questo quadro, davvero inquietante, c’è da registrare, da parte delle autorità politiche, non una maggiore consapevolezza dei rischi che le barriere delle garanzie siano scavalcate – ma proprio il contrario: in nome del dio “sicurezza” la destra vuole tutele più rigide per gli agenti. Salvini ha lanciato un sinistro monito: “Ora più poteri alle forze dell’ordine”. Invero non di buon auspicio, pronunciato dopo l’approvazione del brutale “decreto sicurezza”.
In questo provvedimento, come abbiamo già raccontato (vedi qui), diverse norme riguardano proprio le forze dell’ordine, e vanno ben oltre la strizzata d’occhio alla categoria. Quella legge prevede la circostanza aggravante del delitto di violenza o minaccia e di resistenza a pubblico ufficiale, se il fatto è commesso nei confronti di un ufficiale, di un agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, con l’aumento di pena fino alla metà; l’uso facoltativo delle bodycam sulle divise, dispositivi di videosorveglianza che possono registrare l’attività operativa nei servizi di mantenimento dell’ordine pubblico, di controllo del territorio, di vigilanza di luoghi sensibili, tra l’altro nell’ambiente ferroviario e a bordo treno, facoltà prevista anche nei luoghi e negli ambienti in cui vengono trattenute persone sottoposte a restrizione della libertà personale.
Ovviamente, sono state respinte tutte le proposte che chiedevano codici identificativi per gli agenti: nel 2018, Amnesty International, diciassette anni dopo il G8 di Genova, lanciò una campagna in Italia, tra i pochi Paesi europei a non averli istituiti; ma ora Matteo Piantedosi – che guida il Viminale a forza di espulsioni e respingimenti di migranti – ha detto che “qui non accadrà mai”. Ancora il “decreto sicurezza” ha autorizzato gli agenti a portare armi private senza licenza quando non sono in servizio: una concessione che prelude a una pericolosa deriva. Fra le figure che possono detenere armi senza alcuna licenza per la difesa personale, tra l’altro, vi sono il capo della polizia, i prefetti, i viceprefetti, gli ispettori provinciali amministrativi, gli ufficiali di pubblica sicurezza, i pretori e i magistrati addetti al pubblico ministero o all’ufficio di istruzione. Arriva inoltre, con questa legge, una tutela legale esclusiva per gli appartenenti alle forze di polizia, al corpo nazionale dei vigili del fuoco e alle forze armate, indagati o imputati per fatti connessi alle attività di servizio: lo Stato potrà corrispondere fino a diecimila euro per le spese legali in ciascuna fase del procedimento. Poi, se se venisse accertata la responsabilità del dolo dell’agente, è prevista la rivalsa: ma vai a vedere chi gliela chiede e, comunque, gli aguzzini di Stefano Cucchi e i depistatori godrebbero di soldi pubblici. La rivalsa, del resto, è esclusa in caso di sentenza di non luogo a procedere, per intervenuta prescrizione, per archiviazione e negli altri casi di proscioglimento. Per ora lo Stato prevede 860mila euro all’anno per la copertura di questi eventi; poi chissà se il potente sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, artefice di questa architettura giuridica, riuscirà a ottenere di più. Ma non finisce qui.
L’obiettivo neanche nascosto della destra sono i reati di tortura e di depistaggio, che rappresentano simbolicamente la più grande garanzia di uno Stato che tutela i cittadini e gli stessi agenti delle forze dell’ordine in quanto soggetti che agiscono in nome del diritto e non dell’arbitrio. In un Paese democratico non deve esserci spazio per la tortura di Stato o i depistaggi fatti da chi porta la divisa: l’introduzione di quei reati lo ha stabilito con forza, inserendo così concetti basilari di civiltà giuridica nel nostro ordinamento. Il primo è stato introdotto nel 2017, applicato per la prima volta lo scorso aprile, con una sentenza della Corte di appello di Firenze, con la conferma delle condanne per tortura a carico di alcuni agenti penitenziari per le violenze inferte a una persona detenuta nel carcere di San Gimignano. L’altro è frutto del lavoro infaticabile del presidente dell’Associazione delle vittime di Bologna, Paolo Bolognesi, che, eletto in parlamento, si diede lo scopo di rinnovare l’ordinamento penale con un reato che incredibilmente mancava nel Paese dei depistaggi: nel settembre del 2014, arrivò il primo ok, e, due anni dopo, la legge tanto attesa dai familiari delle vittime delle stragi, applicata per la prima volta nel caso dei depistaggi delle inchieste sulla strage di via D’Amelio. Ebbene, entrambi questi presidi democratici sono già stati messi in discussione anche dall’ineffabile ministro Nordio. In autunno, questa destra feroce potrebbe passare all’offensiva.