
Ci sono sogni che tornano ossessivamente, e che a volte però si trasformano in incubi, non solo nelle vite degli individui ma in quella delle città. A Genova, da decenni, aleggia il fantasma della re-industrializzazione, senza peraltro mai prendere una forma concreta, se non nella retorica politica. Soprattutto a sinistra, dove la condizione di “orfanezza” per la scomparsa industria è sempre stata vissuta come una drammatica mancanza, come un’assenza di progetto, l’idea di una re-industrializzazione da realizzarsi non si sa come, e non si sa quando, è stata argomento tanto vacuo quanto ricorrente. A distanza di diversi decenni da quello che fu lo smantellamento del complesso industriale genovese, dalla siderurgia al meccanico-nucleare, ecco oggi di colpo materializzarsi la possibilità dell’apertura di un forno elettrico all’ex Ilva di Cornigliano, nel cuore di quella che fu la “Manchester genovese”. Il forno elettrico trasforma il ferro “preridotto” in acciaio, e la sua eventuale introduzione significherebbe una riattivazione, sia pure parziale, di quella che fu la produzione siderurgica della città, in un momento storico in cui il Paese ha necessità di acciaio ed è costretto ad importare ben due terzi del suo fabbisogno di laminato.
La proposta nasce nell’ambito della mai chiusa questione dell’altro centro, quello di Taranto, in cui, secondo i piani del governo e del ministro Urso, si vorrebbero aprire ben tre nuovi forni elettrici, e di cui si è occupato su queste pagine Guido Ruotolo (vedi qui e qui), segnalando le criticità e le reazioni suscitate. Sul futuro dell’acciaieria, l’attuale giunta tarantina dovrebbe pronunciarsi nei prossimi giorni (sebbene sia delle ultime ore la notizia delle dimissioni del neosindaco di Taranto).
Genova dovrebbe dunque essere sede del quarto forno necessario a raggiungere gli obiettivi previsti dal piano governativo. La sindaca Salis, oltre alle altre questioni in cui si dibatte, si è trovata servito sul tavolo anche questo piatto difficile da digerire dal presidente della Regione, Marco Bucci, che si è subito detto entusiasta del progetto, dichiarando che si tratta di una opportunità per il “rilancio industriale non solo del sito di Genova Cornigliano, ma dell’intera produzione dell’acciaio a livello nazionale. La prospettiva di produrre otto milioni di tonnellate all’anno di acciaio è quello di cui questo Paese ha bisogno, e avere due milioni di tonnellate a Genova”. E Bucci ha aggiunto che si tratterebbe così di ottenere almeno settecento posti di lavoro.
La cosa non è andata giù a molti in città: “Solo un governo ideologicamente ostile alla tutela ambientale e alla salute pubblica può proporre di riprendere la produzione di acciaio a Cornigliano. È una scelta scellerata, che ignora quanto già vissuto da questo quartiere e pagato a caro prezzo”. Queste le parole del chimico ambientale Federico Valerio, ex dirigente dell’Istituto nazionale per la ricerca sul cancro. Valerio, che da decenni studia le ricadute ambientali e sanitarie delle attività industriali in Liguria, ha fatto parlare i dati, ricordando cosa abbia significato per Cornigliano la presenza delle aree a caldo dell’Italsider, chiuse definitivamente nel 2005. “Dal dopoguerra per oltre cinquant’anni – scrive – l’aria del quartiere è stata saturata da polveri sottili, benzene, ossidi di azoto, idrocarburi policiclici aromatici, diossine. La chiusura della cokeria nel 2002 ha subito prodotto un crollo dei livelli di benzopirene da 5 a 0,3 nanogrammi per metro cubo”. E ha citato uno studio del 2005, del suo stesso istituto, che dimostrava come i giovani di Cornigliano avessero un tasso di ricoveri per problemi respiratori molto più alto dei coetanei degli altri quartieri. Il danno, causato da decenni di esposizione, non si è ancora esaurito. Cornigliano continua ad avere, oggi, la più alta mortalità maschile e femminile di tutta Genova. Secondo Valerio, il fenomeno è determinato dai danni epigenetici causati da diossine e idrocarburi, capaci di alterare l’espressione del Dna, e trasmettersi alle generazioni successive. I favorevoli al progetto – tra cui i progettisti degli impianti, gli ingegneri del gruppo Danieli, che ne ha costruiti analoghi in altre parti del mondo – sostengono però che i nuovi forni sono assolutamente sicuri dal punto di vista ambientale e rilasciano emissioni trascurabili. Certo è, però, che le aree del quartiere ancora oggi in concessione all’ex Ilva, e su cui si ipotizza di fare sorgere il nuovo forno, sono a ridosso delle case, delle scuole, degli impianti sportivi e del mercato rionale. Non si tratta di un sito isolato o lontano dalla città. Si tratta di reintrodurre una fabbrica pesante a pochi metri dall’abitato, in una delle zone più densamente popolate di Genova Ovest.
La sindaca Salis non ha ancora preso una decisione, e, pur lasciando riapparire il fantasma della re-industrializzazione, dato che nei giorni scorsi ha parlato, sia pure in termini per ora generici, di una “vocazione industriale e siderurgica per Genova e Cornigliano”, ha annunciato l’avvio di un processo partecipativo da cui dovrebbe scaturire la scelta definitiva. Processo partecipativo che non si annuncia particolarmente facile, dato che si sono formati due comitati antitetici di cittadini. Il primo raccoglie ambientalisti storici e protagoniste delle lotte, soprattutto donne, che si batterono negli anni Novanta per la definitiva chiusura degli impianti: sostengono che i cittadini di Cornigliano abbiano già pagato un prezzo altissimo in salute. Il secondo comitato, più recente, guarda invece con favore alla realizzazione del forno, sostenendo che “sarebbe ora di superare falsi miti e paure alimentate ad arte; il progresso tecnologico esiste, e può coniugare occupazione e tutela della salute (…), quello di cui si discute oggi non ha nulla a che vedere con il ciclo a caldo di mezzo secolo fa”. Fanno evidentemente gola i posti di lavoro promessi: nel documento di fondazione, firmato da diversi abitanti, tra cui la presidente Carla Morosi, si legge: “Guai a mettere a repentaglio le prospettive delle famiglie di centinaia di lavoratori e soprattutto quelle dei nostri figli e nipoti che, nella frenesia di voler chiudere tutte le industrie, sono costretti a cercare fortuna all’estero”.
Vero è, in ogni caso, che anche i modelli di forni elettrici tecnologicamente più avanzati non risolvono del tutto il problema delle emissioni. Gli studi scientifici parlano chiaro: le emissioni delle acciaierie elettriche contengono particolato fine, metalli pesanti, microinquinanti. Anche se “filtrato”, questo particolato non si ferma ai cancelli della fabbrica, ma viaggia con l’aria, si accumula nelle zone circostanti, penetra nei polmoni, nelle scuole, nelle case. Il forno elettrico evoca quindi brutti ricordi.
Difficile dimenticare la ciminiera che svettava sul quartiere in cui bruciava notte e giorno un fuoco inestinguibile, e che eruttava periodicamente polveri che facevano ritirare le lenzuola nere ai malcapitati che le stendevano nell’orario sbagliato. Perciò pensare di far tornare la produzione di acciaio, nel cuore di un quartiere densamente abitato, appare una scommessa quanto mai discutibile. Lo storico Luca Borzani, sulle pagine di “Repubblica”, ha parlato di un back to the future, che elude la vera questione della città, e cioè quella di un investimento sui settori avanzati e della scelta di nuove vie di sviluppo, tornando piuttosto a riproporre una stereotipata immagine “manchesteriana”, che si pensava ormai cancellata per sempre.