
C’è chi dice “no”. O meglio “ni”. Così al vertice Nato all’Aia (in programma fino al 26 giugno) il premier spagnolo socialista, Pedro Sánchez, arriverà con una mediazione di fronte al segretario generale della Nato, l’olandese Mark Rutte, riguardo alla destinazione per il riarmo del 5% del Pil entro il 2035. Un suo netto “no” alla richiesta avrebbe creato seri problemi all’Alleanza atlantica, visto che, com’è noto, per prendere una decisione c’è bisogno dell’unanimità. Ma è poi arrivato appunto questo singolare accordo, secondo il quale, pur mantenendo come obiettivo generale il 5%, Madrid può interpretarlo in modo flessibile, dando la possibilità alla Spagna di destinare alla difesa la percentuale del Pil che riterrà necessaria, pur rispettando l’impegno Nato preso lo scorso 6 giugno. Insomma, il premier socialista mantiene il suo diniego al 5%, senza tuttavia mandare in frantumi una scelta il cui blocco, invece, sarebbe stato un buon risultato contro il bellicismo che si sta impadronendo del vecchio continente.
In un primo momento, le ragioni del rifiuto erano tutte interne a una politica coraggiosa, che ha caratterizzato finora l’operato della coalizione di governo, in carica dal novembre 2023, composta dal Psoe (Partito socialista operaio spagnolo), da Sumar, un gruppo che tiene insieme diverse forze di sinistra, e dai socialisti catalani. Nella lettera inviata a Rutte, il leader socialista aveva fatto presente che quell’obiettivo, il 5%, era irragionevole e controproducente per un Paese che ha tra le sue prime preoccupazioni la tenuta dei servizi pubblici, del welfare e del sistema pensionistico, oltre che la necessità di non abbassare le risorse finalizzate alla transizione ecologica e alla cooperazione internazionale allo sviluppo. Investire in armamenti ottanta miliardi di euro l’anno significherebbe ridimensionare quei settori, e per forza di cose aumentare le tasse. Sánchez aveva precisato che un domani, a fronte di una possibile crescita dell’aggressività russa, si potrebbe aumentare questa percentuale; ma secondo lui non c’è al momento questo rischio, contrariamente al pensiero diventato ormai dominante all’interno dell’establishment europeo, vista anche la minaccia degli Stati Uniti di non finanziare più la Nato lasciando l’Europa a se stessa – senza dimenticare, tuttavia, che le scelte di Trump cambiano dall’oggi al domani, come abbiamo potuto osservare in questi giorni con l’attacco militare all’Iran. Una precisazione, questa, che potremmo comunque considerare anticipatrice dell’intesa prima citata.
Ricordiamo che la Spagna, dal 2014, destina già il 2% del Pil alle spese Nato, cifra stanziata da tutti e trentadue i Paesi dell’Alleanza dopo l’invasione russa della Crimea, confermata nel 2023, dopo l’inizio del conflitto con l’Ucraina. Detto questo, non manca tuttavia la consapevolezza a Madrid che alcuni Paesi sentano maggiormente – per la maggiore vicinanza geografica a Mosca – la necessità di riarmarsi. La Spagna ha perciò proposto una sorta di finanziamento comune, a immagine e somiglianza di quanto deciso durante la pandemia.
La decisione di Sánchez si inserisce, inoltre, in un contesto già di per sé problematico rispetto a questo 5%. Se, da un lato, dove i socialisti sono al governo (vedi la Danimarca – dove però la spinta militarista è molto presente, vista l’apertura alla leva per le donne – per non parlare della Germania) non si registrano problemi sulla richiesta della Nato, dall’altro, anche tra coloro che hanno aderito senza battere ciglio all’obiettivo richiesto da Rutte, sono emersi dei problemi. Ovvero, raggiungere il 5% è complicato, sia pure modificando l’impegno economico, per cui il 3,5% del Pil sia destinato alla spesa militare diretta e l’1,5 a infrastrutture strategiche: per esempio strade, porti e aeroporti, al fine di dispiegare più rapidamente mezzi e uomini. Il tema è complesso, e Rutte, persona peraltro poco equilibrata nelle sue scelte, avrà le sue gatte da pelare; dovrà probabilmente rivedere i suoi piani, anche se, come abbiamo visto, un primo importante problema appare risolto.
Tornando a Sánchez, i maligni avevano sostenuto che il grave scandalo che ha colpito il suo partito in materia di presunte tangenti per l’assegnazione di appalti pubblici (su cui torneremo più avanti) lo avrebbe spinto a venire incontro al proprio elettorato di sinistra; la parziale retromarcia fa ora cadere questa lettura dei fatti. Aggiungiamo, a onore del vero, che al leader socialista, in altre occasioni, non è certo mancato il coraggio nel prendere delle posizioni scomode. In particolare, quando ha riconosciuto lo Stato di Palestina e aderito alla causa sudafricana presso la Corte penale internazionale sul tema “genocidio”: tanto da spingere Tel Aviv a convocare l’ambasciatrice spagnola. Ha inoltre bloccato gli acquisti di armamenti e tecnologie militari da Israele, cancellando anche un contratto multimilionario per munizioni destinate alle forze di polizia, prodotte dall’azienda israeliana Imi System.
Ma è sul fronte dei diritti sociali che il governo di sinistra – l’unico che si possa definire tale in Europa – ha conseguito, grazie alla ministra del Lavoro, Yolanda Díaz (vedi qui), dei risultati importanti, nella lotta al precariato, con il salario minimo, con il diritto alla casa e agli affitti agevolati, e ora con una proposta relativa alla riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (vedi qui): obiettivi tutti presenti già nelle rivendicazioni degli anni Settanta.
Ora, però, Sánchez deve cercare di salvare il governo, a fronte dello scandalo che lo sta scuotendo. Se, da un lato, il caso riguardante la stessa famiglia del premier – a partire dalla moglie Begoña Gómez e dal fratello David Sánchez – dovrebbe sgonfiarsi, visto che la denuncia è partita da uno degli pseudo-sindacati di estrema destra non nuovi nel costruire macchine del fango, dall’altro, invece, il problema è serio: riguarda infatti figure di primo piano del partito, tutte accusate di corruzione, in particolare Santos Cerdán, numero tre del Psoe, dimessosi immediatamente da tutti gli incarichi, al quale erano stati affidati aspetti complessi e dirimenti per la tenuta dell’esecutivo, come le trattative con il partito indipendentista catalano guidato da Carles Puigdemont. E il caso investe anche l’ex ministro, José Luís Ábalos, e l’ex assessore, Koldo García – mentre la lista potrebbe perfino allungarsi.
Sánchez, che non è coinvolto dall’inchiesta giudiziaria, ha chiesto scusa ai cittadini in una conferenza stampa, e si è detto all’oscuro di tutto. Siamo propensi a credere alla sua versione dei fatti, ma che il leader del partito e capo del governo non sapesse ciò che stava facendo il suo “numero tre” non depone certo a suo favore. In aggiunta, ci sono le critiche da parte della sinistra dell’esecutivo, che attacca il premier, invece di far quadrato, per non avere attuato una politica sufficientemente di sinistra. Critiche che aumenteranno di fronte alla retromarcia, sia pure parziale, sul riarmo europeo. Sánchez ha escluso dimissioni ed elezioni anticipate, i cui risultati sarebbero catastrofici secondo i sondaggi. Ma il problema resta. Qualora il governo cadesse, con il conseguente voto, la vittoria della destra sarebbe inevitabile – e così la perdita di uno dei pochi governi decenti del vecchio continente.