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Un riarmo discutibile e in ordine sparso
I venti di guerra che, da oltre un mese, soffiano pericolosamente forti vicino alle frontiere hanno riaperto una questione rimasta in sospeso per decenni: quella del riarmo dell’Europa. Per una serie di ragioni – cui non sono estranee riserve dei singoli Stati, abitudine a dipendere dall’ombrello americano, e una certa riluttanza postbellica nell’affrontarlo –, il problema della creazione di una forza militare europea è restato ai margini del dibattito sulla costruzione dell’Europa unita. Gli stessi accordi di Helsinki del 1999, che avrebbero dovuto avviare la costruzione di una difesa comune, rispecchiano fino in fondo queste ambiguità.
Notava già anni fa il generale Fabio Mini che quello che venne salutato come il momento fondativo di un esercito europeo, in realtà si è poi articolato in una serie di norme che hanno de facto impedito la costituzione di un esercito autonomo, finendo per delegare in toto la difesa europea alla Nato. Da Helsinki uscì unicamente una struttura burocratica, peraltro arenatasi rapidamente, dato che il contingente previsto dagli accordi può essere utilizzato solo con l’assenso e l’unanimità di tutti i Paesi membri dell’Unione: ed è – più che un esercito in senso stretto, inteso come una entità con una preparazione comune, tecnologie condivise, esercitazioni e manovre – una sommatoria di contingenti più o meno raccogliticci forniti dai singoli Paesi.
Conte contro il riarmo, in equilibrio su un filo
Il 19 febbraio del 2021 “Youtrend.it”, sito specializzato nell’analisi dei sondaggi e delle tendenze politiche e sociali, pubblicò la supermedia dei sondaggi politici, la sua tradizionale sintesi che incrocia i dati delle diverse rilevazioni demoscopiche sui partiti. Con il via libera al governo Draghi, appena insediato, il Movimento 5 Stelle era stimato al 14,8% delle intenzioni di voto degli italiani. Tredici mesi dopo i 5 Stelle, secondo la stessa fonte, sono al 12,7%. Impossibile non ricordare che la stessa forza politica aveva largamente superato il 30% nelle urne solo quattro anni fa. Non può sorprendere, dunque, la scelta di Giuseppe Conte di avviare una campagna di comunicazione che provi a rianimare la sbiadita identità politica del Movimento.
Appena riconfermato leader da un plebiscito online fra gli iscritti, con oltre il 94% dei votanti a suo favore – ma era candidato unico ed è atteso comunque a un nuovo round di ricorsi giudiziari –, Conte ha scelto come tema privilegiato il “no” all’aumento, entro un biennio, delle spese militari al 2% del Pil. Aumento che è un’antica richiesta di Washington, finora ignorata, assecondata con moderazione o procrastinata dai governi italiani e dalla maggioranza dei partner della Nato.