
“Con riferimento alle spese per la difesa e, più in generale, la sicurezza del Paese, il lavoro di ricognizione secondo la metodologia Nato, effettuato con particolare scrupolo, lascia ritenere che già da quest’anno saremo in grado di raggiungere l’obiettivo del 2% del Pil assunto nel 2014. Siamo oltremodo coscienti, anche alla luce delle attuali tensioni, dell’esigenza di incrementare tali spese nei prossimi anni”. Questo è un passaggio cruciale della relazione che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha svolto nel corso delle audizioni parlamentari sul Documento di finanza pubblica (Dfp), versione light di quello che un tempo si chiamava Dpef (dove la “p” stava per programmazione, parola tabù in questi tempi programmaticamente incerti) e poi fu ribattezzato Def. Passaggio cruciale, perché esprime forse, più di ogni altra considerazione, l’indirizzo programmatico assunto da questo governo, in linea con i piani di riarmo sui quali scommette la Commissione europea, ma in linea anche, a giudicare dalla mezza benedizione ottenuta da Giorgia Meloni a Washington, con quanto si attende dall’Italia l’attuale amministrazione statunitense.
Certo, poi il titolare dei conti pubblici pensa a quale sia la strada migliore per rinviare o ridurre il salasso per le armi: se fosse per lui, probabilmente, conterebbe nelle spese militari non solo carabinieri e guardia costiera, ma anche le biciclette dei vigili urbani di qualche remota valle alpina; c’è però il ministro della Difesa, Guido Crosetto, che di tanto in tanto lo richiama all’ordine sulle scelte strategiche in materia. E la Nato, comunque, ha i suoi metodi di calcolo, ai quali difficilmente derogherà per il quieto vivere del governo Meloni.
Il Dfp è molto discusso: rivendicato dall’esecutivo come necessario adeguamento alle nuove indicazioni che vengono dall’Europa, è stato criticato, o anche contestato, sia dalle opposizioni sia da diversi soggetti sociali, proprio perché mancano le anticipazioni sugli obiettivi delle politiche di bilancio e sulle misure economiche che il governo intende adottare almeno con la prossima manovra. Le norme vigenti in materia di legge di Bilancio non possono essere aggirate a botte di risoluzioni di maggioranza: è l’accusa che è risuonata nelle aule parlamentari a proposito dello strumento adottato dal governo.
Secondo l’economista (e magistrato contabile spesso nel mirino polemico delle destre di governo), Marcello Degni, che ne ha scritto sul “manifesto”, la mancanza di indicazioni concrete sulla manovra finanziaria impedisce al parlamento – a onore del vero, non da oggi ma a maggior ragione oggi col documento “leggero” – di svolgere la sua funzione di scelta sull’allocazione delle risorse e lo riduce a gestire “la spartizione della ‘mancia’ indicata dal governo” in sede di esame della legge di Bilancio. Anche questo passaggio, dunque, è un tassello del puzzle della crescente marginalità del potere legislativo sovrastato dal potere esecutivo, e questo ben prima che si realizzi la discussa riforma del cosiddetto premierato.
Quanto ai contenuti del Dpf, la cosa fondamentale da tenere presente è che per ora il governo si è limitato a rivedere le previsioni sulla crescita del Pil, dall’1,2%, stimato pochi mesi fa, allo 0,6;ma Giorgetti vede rosa, dal momento che “sembra prospettarsi uno scenario meno avverso di quello messo in conto nelle previsioni ufficiali; più favorevole in termini sia di possibile esito finale della struttura dei dazi a livello internazionale, sia di variabili esogene (quali i prezzi dell’energia e i tassi d’interesse) che condizionano la crescita”.
Meno ottimista la Cgil, che, nel corso delle audizioni parlamentari sul Documento, ha sottolineato come “non solo la legge di Bilancio non produrrà i pochi effetti sperati, ma si perderanno addirittura – tra quest’anno e il 2027 – 0,9 punti percentuali di Pil reale”, e il Dpf rappresenta solo “l’ultima tappa di un percorso cominciato nell’aprile del 2024, quando il governo – con una decisione a dir poco autolesionistica – avallò la nuova governance economica europea, da cui è derivato un Piano strutturale di bilancio che ha impostato – per il nostro Paese – un lungo ciclo di ‘austerità selettiva’”. Selettiva perché “chi la sta subendo e continuerà a subirla” sono “in primis lavoratori e pensionati”.
Ma se l’indicazione della crescita della spesa militare, generalmente intesa (anche se l’Italia pare intenzionata a prendere tempo sul tema dello storno dei debiti per il riarmo dalle regole di finanza europee), rappresenta l’indicazione programmatica più vistosa espressa dal governo di destra-centro in questo passaggio parlamentare, non si possono trascurare le riserve espresse su questo tema specifico, sempre nel corso delle audizioni sul Dfp, da alcuni soggetti istituzionali di un certo rilievo. Il vicecapo del Dipartimento Economia e statistica della Banca d’Italia, Andrea Brandolini, ha spiegato per esempio, nella relazione depositata nelle commissioni Bilancio di Camera e Senato, che “le maggiori erogazioni per la difesa avrebbero almeno in parte carattere strutturale, il che suggerisce di finanziarle anche con risparmi su altre voci di spesa o aumenti delle entrate”: tradotto, tagli alla spesa sociale o più tasse. Ma anche sul piano lanciato da Ursula von der Leyen le perplessità di Bankitalia sono abbastanza chiare: “ReArm Europe/Readiness 2030 consentirà politiche più espansive soprattutto nei Paesi con minori vincoli di bilancio, quali per esempio la Germania”, e inoltre il riarmo “affidato ai singoli Paesi, senza coordinamento, potrebbe comportare in ogni caso una spesa inefficiente (non potendo sfruttare le possibili economie di scala) e inefficace (per il rischio sia di duplicazioni sia di non colmare le attuali carenze)”. Se vi sembra di avere sentito dire cose simili da più di un leader di opposizione, è perché in effetti le hanno dette.
Osservazioni, in qualche modo critiche, sono arrivate anche dall’Ufficio parlamentare di bilancio, non certo un covo di oppositori di sinistra e pacifisti, che in premessa, nel suo documento di accompagnamento all’audizione parlamentare, ricorda come sia stata la stessa Commissione europea, promotrice del progetto di riarmo, a chiarire che, “al fine di salvaguardare la sostenibilità delle finanze pubbliche, dopo il 2028 gli Stati membri dovranno sostenere il livello più elevato di spesa nel settore della difesa attraverso una graduale rimodulazione delle altre voci di bilancio”: in altri termini, quello che prevede Bankitalia, tagli o tasse (o entrambe le cose). E in ogni caso, “la flessibilità per il rafforzamento delle spese in difesa implicherebbe un aumento del rapporto tra debito e Pil”: in sostanza, un peggioramento dei conti pubblici. L’ottimismo del ministro dell’Economia, quindi, potrebbe avere basi economico-finanziarie non troppo solide. Ma, come recita il titolo di un vecchio film di Alberto Sordi, “finché c’è guerra c’è speranza”. Sordi, del resto, in quella pellicola del 1974, interpreta il ruolo di un trafficante di armi. Incredibilmente attuale, mezzo secolo dopo.