
I venti di guerra che, da oltre un mese, soffiano pericolosamente forti vicino alle frontiere hanno riaperto una questione rimasta in sospeso per decenni: quella del riarmo dell’Europa. Per una serie di ragioni – cui non sono estranee riserve dei singoli Stati, abitudine a dipendere dall’ombrello americano, e una certa riluttanza postbellica nell’affrontarlo –, il problema della creazione di una forza militare europea è restato ai margini del dibattito sulla costruzione dell’Europa unita. Gli stessi accordi di Helsinki del 1999, che avrebbero dovuto avviare la costruzione di una difesa comune, rispecchiano fino in fondo queste ambiguità.
Notava già anni fa il generale Fabio Mini che quello che venne salutato come il momento fondativo di un esercito europeo, in realtà si è poi articolato in una serie di norme che hanno de facto impedito la costituzione di un esercito autonomo, finendo per delegare in toto la difesa europea alla Nato. Da Helsinki uscì unicamente una struttura burocratica, peraltro arenatasi rapidamente, dato che il contingente previsto dagli accordi può essere utilizzato solo con l’assenso e l’unanimità di tutti i Paesi membri dell’Unione: ed è – più che un esercito in senso stretto, inteso come una entità con una preparazione comune, tecnologie condivise, esercitazioni e manovre – una sommatoria di contingenti più o meno raccogliticci forniti dai singoli Paesi.
D’altro canto, è anche vero che negli ultimi decenni il paradigma della difesa europea è stato sostanzialmente costituito da operazioni al di fuori dell’area dell’Unione, con interventi di bassa e media intensità, e non certo contro grandi potenze, ma contro avversari di basso livello e preparazione militare. Il che non ha certo contribuito a un’accelerazione del processo di formazione di una forza militare unitaria.
Sebbene si cerchi ora di correre ai ripari, con l’introduzione tardiva della “Bussola” militare di cui parlava un recente articolo di Sandro De Toni, il panorama nel suo complesso non cambia, si rimane all’interno della opzione “esercito europeo uguale somma di eserciti dei singoli Stati”. Viene ulteriormente rinviato, se non definitivamente eluso, il progetto di costituzione di una forza comune, che non si capisce come potrebbe prendere forma in assenza di un anche minimo accenno di politica estera comune dell’Unione. Quello che però colpisce, nella cronaca degli ultimi giorni, al di là del riproporsi della insoluta questione della difesa europea, delegata sostanzialmente a una struttura eterodiretta e dalle finalità non trasparenti come la Nato, è la ripresa della corsa agli armamenti che la guerra in Ucraina ha provocato nei singoli Paesi membri.
Si dirà che la cosa appare giustificata, visto il drammatico precipitare delle tensioni sul fronte orientale; ma, a ben vedere, il riarmo in ordine sparso cui stiamo assistendo non lascia presagire nulla di buono. Va anche detto che (come ha segnalato l’Istituto Sipri di Stoccolma, che da decenni segue l’andamento della spesa militare a livello mondiale) se subito dopo la conclusione della guerra fredda si era assistito a una relativa contrazione degli investimenti nel settore, già da diversi anni i Paesi europei avevano ricominciato ad accrescere la loro spesa militare. Si tratta dunque della ulteriore accelerazione di un processo già in corso.
Il caso più singolare, comunque, è quello tedesco. La guerra ha cambiato la Germania. Fa notizia infatti che Olaf Scholz e il governo della coalizione “semaforo” abbiano gettato alle ortiche il pacifismo per stanziare somme importanti da destinare al riarmo del Paese. Il liberale Christian Lindner ha parlato della “fine di una illusione”, alludendo a quella che era stata in precedenza la peculiare posizione tedesca in termini di sicurezza e di relazioni internazionali, e di cui abbiamo detto in articoli precedenti. E l’influente presidente dei verdi, Robert Habeck, ha lanciato un chiaro messaggio al suo elettorato pacifista dicendo: “Non ne usciremo con le mani pulite”. Così Il 27 febbraio, sotto la pressione degli avvenimenti, Scholz ha annunciato una “svolta storica”: cento miliardi di euro stanziati in via eccezionale per il riarmo della Bundeswehr in un Paese che per anni era rimasto ben al di sotto del 2% del Pil indicato dalla Nato come cifra di riferimento. Inoltre, anche il budget “normale” per la difesa verrà elevato fino a raggiungere appunto il fatidico 2%. La decisione pare stia trovando un sorprendente appoggio popolare, dato che si è passati, nel giro di un anno, da poco più di un terzo dei tedeschi favorevoli a un incremento delle spese militari, a quasi due terzi che condividono la svolta. In termini tecnici, il denaro è stato trovato con la costituzione di un fondo speciale (Sondervermögen) creato aggirando le norme sul debito. La variazione, rispetto agli stanziamenti previsti, deve ancora passare in parlamento, dove verrà discussa in giugno.
Analogamente abbiamo visto in Italia crescere gli stanziamenti in campo militare, anche mediante una operazione di maquillage politico, visto che la maggioranza degli italiani pare rimanere contraria a questo tipo di provvedimenti, operazione che cerca di farli passare come una sorta di politica espansiva di carattere keynesiano, tacendo peraltro il fatto che questi investimenti sarebbero maggiormente produttivi nei settori civili dell’economia. E colpisce che anche Danimarca e Svezia, Paesi storicamente privi di una tradizione bellicista, aumentino il budget destinato agli armamenti.
Al di là delle considerazioni sui tempi necessari per questo riarmo e sulle sue discutibili conseguenze e ripercussioni, la corsa alle spese militari dei singoli Stati rischia non solo di avere aspetti pericolosi, ma di essere foriera di tensioni all’interno della stessa Unione, come mostra bene la crisi dei rapporti franco-tedeschi. Non si tratta unicamente del prestigio della force de frappe francese, che potrebbe ipoteticamente un giorno essere messa in discussione, ma degli aspetti economici e commerciali della spesa. La Francia teme infatti che vengano traditi gli accordi bilaterali messi in cantiere negli ultimi anni, che prevedevano l’acquisto, da parte tedesca, di materiale bellico di produzione francese, e che rischiano di venire accantonati per il rivolgersi dei tedeschi a fornitori americani o alla industria nazionale. La coalizione “semaforo” guarda infatti anche alla rivitalizzazione di una filiera interna di produzione bellica, che dovrebbe essere appunto finanziata mediante il fondo speciale.
Difficile pensare che, in una Europa divenuta nel giro di qualche anno il maggiore importatore mondiale di armi, la corsa si arresti o rallenti anche nel caso che il conflitto in Ucraina dovesse conoscere una fine. La tendenza attuale è destinata a durare nel tempo, tra ordinativi, riconversione industriale, e avvio della nuova produzione. Assorbirà risorse che certo sarebbe stato meglio destinare ad altro. E a coloro che sono presi dalla frenesia del riarmo andrebbe ricordato che la potenza militare non è in grado da sola di costituire un ordine politico stabile. Come osservava Napoleone, “con le baionette si può fare di tutto, tranne che sedervisi sopra”.