
L’Ungheria non ce la fa a liberarsi di Orbán. Anzi. Non vuole. Per la quarta volta consecutiva il partito del leader sovranista di Fidesz alleato con i cristiano-democratici di Kdnp, ottiene il 54,6% dei voti e 134 seggi contro la coalizione molto ampia e variegata dell’ultracattolico europeista Peter Marki-Zay, che aveva radunato tutti gli altri partiti, alcuni anche di sinistra, e che, malgrado i sondaggi avessero previsto un testa a testa, ha ottenuto solo il 33,6% conquistando 58 seggi. Buon risultato anche per l’estrema destra che ha conseguito il 6,4% e 7 seggi. In calo l’affluenza alle urne, con il 67,8% degli aventi diritti al voto. Marki-Zay ha riconosciuto la sconfitta, sottolineando tuttavia l’impossibilità di vincere contro una incessante campagna elettorale.
L’unica buona notizia di questo appuntamento riguarda il risultato del referendum sulla legge che avrebbe vietato l’inserimento dei temi inerenti all’omosessualità nell’ambito dell’insegnamento ai minori. Il referendum, tenuto ieri in concomitanza con le elezioni e voluto dallo stesso Orbán, è risultato nullo per mancanza di quorum, come era negli auspici delle associazioni per i diritti umani che avevano fatto campagna in questo senso. La normativa era valsa all’Ungheria l’avvio di una procedura d’infrazione Ue.
Ma sulla vittoria di Orbán non c’è discussione: “Abbiamo vinto contro tutti” ha affermato il primo ministro magiaro, che ha sottolineato come “questa nostra quarta vittoria consecutiva” sia stata “la più importante, perché abbiamo conquistato il potere contro un’opposizione che si era alleata. Si sono alleati tutti e noi abbiamo vinto lo stesso”. Nell’Unione europea è l’Ungheria l’unico Paese che ha detto un secco “no” all’estensione delle sanzioni antirusse e all’invio delle armi alla resistenza ucraina. L’amicizia tra l’ungherese e il presidente russo Vladimir Putin, pur con tutte le differenze del caso, avvicina pericolosamente Budapest alla Bielorussia di Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnko.
A proposito di contesto internazionale, Orbán ha sottolineato come sia riuscito a sconfiggere “il globalismo contro Soros, contro i media mainstream europei e anche contro il presidente ucraino Zelensky, inviso a Budapest”. Le posizione di Orbán, più volte accusato dall’Europa per aver limitato la libertà di stampa e della magistratura, ha dato uno scossone ai Paesi del Patto di Visegrad. Quell’intesa, siglata il 15 febbraio del 1991 dalla Polonia, dall’allora Cecoslovacchia – poi Repubblica ceca e Slovacchia – e appunto dall’Ungheria, per portare avanti una politica militare, culturale ed economica comune, in vista di un ingresso nell’Unione.
In questi ultimi anni i firmatari di questa vecchia intesa sono stati caratterizzati da un’assoluta indisponibilità ad accogliere immigrati, ora venuta meno almeno per quanto riguarda gli ucraini, dalla presenza di misure illiberali, in particolare da parte della Polonia e appunto dell’Ungheria, e dal rapporto negativo con Mosca. Ad eccezione appunto di Orbán. Divisione che la guerra ha drammaticamente accentuato, facendo venir meno il collante che univa i quattro Paesi. A fare da sfondo a questo quadro, c’è appunto il conflitto più pericoloso da quando è caduto il Muro di Berlino.
Come abbiamo detto, Orbán non ha mai nascosto le sue simpatie per Putin, come tutti gli altri sovranisti europei – Salvini compreso, che si è subito complimentato con il magiaro per la vittoria. La visita del premier ungherese del primo febbraio al Cremlino, mentre Mosca ammassava truppe al confine con l’Ucraina, era stata presentata come un tentativo per tenere aperto il dialogo tra l’Europa e Mosca. Ma, come racconta Matteo Zola – giornalista professionista, direttore responsabile di “East Journal” e collaboratore dell’Osservatorio Balcani e Caucaso –, “in realtà quella visita aveva ben altri scopi di carattere economico: dal progetto della centrale nucleare Paks II all’estensione del contratto di fornitura di gas. E poi la produzione del vaccino russo Sputnik V in Ungheria”.
Altro tema che unisce Budapest a Mosca, in chiave antiucraina, è la difesa della minoranza ungherese che fa il paio con quella russa nel Donbass e in Crimea. Sono circa 150mila gli ungheresi in Ucraina che vivono prevalentemente nella regione della Transcarpazia, nei pressi della città di Užhorod capitale storica della Rutenia subcarpatica. Allontanati dalla madrepatria alla fine della Prima guerra mondiale con la disgregazione dell’impero austroungarico, recentemente sono stati quasi privati di ogni diritto a cominciare dalla revoca dello status di lingua regionale, inserita nel contesto più ampio della guerra dichiarata alle altre lingue del Paese, a cominciare naturalmente dal russo. Anche se nella stesura finale della legge viene consentito almeno l’insegnamento delle varie lingue delle minoranze.
Questa rivendicazione comune tra Budapest e Mosca ha posto le basi per un’avversione all’ingresso dell’Ucraina nella Nato. L’arrivo della guerra ha trovato impreparato Orbán, il quale, in un primo momento, si era detto d’accordo con le sanzioni europee contro Mosca, salvo poi esprimere la propria contrarietà all’invio di armi. Secondo Stefano Bottoni, docente di Storia dell’Europa orientale presso l’Università degli studi di Firenze, “ad andare in crisi è la narrazione interna: dopo anni passati a descrivere i governi ucraini come malvagi persecutori di minoranze, e la Russia come partner affidabile, Orbán – ha aggiunto Bottoni – si è trovato adesso a dover fronteggiare una verità dei fatti che nessun media compiacente potrà ribaltare. Aver investito tanto, in termini di immagine, sull’amicizia con Mosca – sottolinea lo storico – potrebbe avere un prezzo”.
Per la verità, Orbán ha sempre vissuto in questi ultimi anni nell’ambiguità, perché se da un lato elogiava Putin, dall’altro non ha mai messo in discussione l’appartenenza di Budapest all’Unione europea e alla Nato, collocazioni, tra l’altro, sostenute da circa l’80% degli ungheresi.
Anche il voto in Serbia ha prodotto un risultato gradito a Mosca e che allontana Belgrado dall’Unione europea. In Serbia si è votato in contemporanea per le parlamentari anticipate, le presidenziali e le amministrative in 14 Comuni, compresa la capitale. Il presidente Aleksandar Vučić ha ottenuto tra il 59 e il 61% dei consensi, che gli evitano il ballottaggio, mentre il suo Partito progressista serbo si è attestato intorno al 44% dei consensi e si è affermato anche a Belgrado. Il suo principale avversario Zdravko Ponoš, candidato dell’opposizione unita, ha ottenuto il 17,5%; a Milos Jovanovic del movimento Speranza per la Serbia è andato il 5,9%. All’opposizione unita è andato il 13,6%, al Partito socialista (Sps) di Ivica Dačić l’11,4%. Questi ultimi hanno denunciato l’assenza di ogni confronto o dibattito pubblico tra le forze politiche in campo.
Complicato il voto per i serbi del Kosovo: per votare hanno dovuto raggiungere quattro località del sud della Serbia, dopo il fermo rifiuto delle autorità di Pristina, nonostante le pressioni dell’Unione europea e della comunità internazionale, affinché organizzassero seggi elettorali nel territorio del Kosovo. Ma la risposta è stata netta: non ospitiamo elezioni di un “Paese straniero”.
Come per l’Ungheria, anche nel Paese balcanico l’ha fatta da protagonista la guerra, che ha reso ancora più scomoda la posizione di una leadership vicina a Mosca. Vučić aveva condannato la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, ma non aveva aderito alle sanzioni soprattutto per l’invio dalla Russia di forniture energetiche a prezzi scontati e per il sostegno sulla spinosa questione del Kosovo. Un intreccio di interessi che ha favorito la conferma del leader nazionalista.