
Ci sarà tempo per riflettere sull’esito dei cinque referendum di domenica 8 e di lunedì 9 giugno, e per capire cosa sia successo veramente. Si tratterà di analizzare la mappa dell’astensionismo insieme all’andamento della consultazione, per zone e per categorie sociali, confrontando magari i comportamenti elettorali dei lavoratori con quelli di altri appuntamenti storici, come la consultazione sull’abolizione della scala mobile del 1985. E più in generale ci sarà tempo per capire cosa fare dello strumento referendario, che ora viene rimesso pesantemente in discussione, mentre si chiedono le teste dei promotori, a partire da quella del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini.
Come al solito, invece di parlare della commedia, si parla del carattere degli attori e dell’impressione prodotta dalla scenografia. Qualcuno ha perfino detto di un eccesso di “ideologismo” riguardo a quesiti che, al contrario, sono apparsi fin troppo tecnici e dettagliati. Eppure, dalla consultazione referendaria, emergono spunti che sarebbe utile sviluppare per individuare le strade realmente praticabili per costruire un’alternativa a uno dei peggiori governi degli ultimi anni, e soprattutto per estendere la democrazia, invece di comprimerla come si sta facendo in questo periodo storico, e come si progetta di fare nei prossimi mesi. Bisogna sgombrare il campo, prima di tutto, dalle semplificazioni del politichese. Ci risulta, per esempio, che nessuno dei promotori abbia mai parlato di “spallata” al governo, di un referendum su Giorgia Meloni o di presa del “Palazzo d’estate”. Tutti i protagonisti avevano piuttosto parlato della necessità di difendere quei pochi spazi di partecipazione democratica diretta che ancora sopravvivono e di verifica (questo sì) di un consenso a un governo che è in carica proprio grazie alle basse percentuali di voto. Anche per il presidente del Senato, Ignazio La Russa, uno dei prodotti pregiati dell’astensionismo, e ora condottiero della campagna per l’astensionismo militante, non sarà facile dire che oltre quattordici milioni di persone che sono andate a votare sono poche.
Il primo spunto, nel merito dei quesiti, riguarda una sorpresa che forse tanto sorprendente non è: la differenza nelle scelte dei cittadini sui quesiti del lavoro (dove trionfa il “sì”) e su quello della cittadinanza, in cui invece si fanno sentire i “no”. Si era pensato che la cittadinanza sarebbe andata più liscia, mentre i quesiti sul lavoro e in particolare quello sul Jobs act avrebbero allontanato i cittadini, anche a causa delle divisioni interne al centrosinistra, con Matteo Renzi che ora esulta per l’esito negativo, come se fosse ancora lui il presidente del Consiglio. Ma alcuni amici che hanno partecipato alla lunga campagna referendaria (e questo è già stato un segnale importante di vitalità delle strutture sindacali, un investimento sul “sindacato di strada”) ci avevano allertato. La maggioranza dei cittadini passati in questi giorni per i banchetti della Cgil, che hanno letto i volantini e hanno espresso il loro parere, si è dichiarata contraria, o quanto meno perplessa, sul quesito della cittadinanza. Molti hanno detto che cinque anni sono troppo pochi per concedere la cittadinanza a uno straniero. E i nostri amici “volantinatori” ci hanno raccontato di incontri paradossali, come quello con un pachistano che, letto il volantino del referendum, ha detto al suo interlocutore: “Grazie, non mi interessa, io la cittadinanza ce l’ho da dieci anni”. Ma tutti quelli che la cittadinanza non l’hanno e non l’avranno? Pazienza, peggio per loro.
Dalla consultazione di domenica e lunedì, emerge quindi la conferma dell’importanza dei temi individuati dai promotori, a partire proprio dalla cittadinanza che è una questione politica, ma prima di tutto culturale. “I contratti precari, i subappalti, la tutela contro i licenziamenti, la sicurezza sul lavoro e il tema della cittadinanza – ha dichiarato Landini – rimangono prioritari”. “Un anno fa, quando abbiamo raccolto le firme, sapevamo che non sarebbe stata una passeggiata, in un Paese con una grave crisi democratica in atto. L’abbiamo fatto perché pensiamo che oggi estendere e tutelare il lavoro ed estendere la democrazia non sono cose diverse, ma rappresentano la stessa cosa”. Per il segretario della Cgil, le persone che sono andate a votare sono quindi “una base di partenza fondamentale: questo ci pone la necessità di impegnarci ancora di più e mettere a disposizione la nostra organizzazione anche attraverso un cambiamento”.
È questa, secondo il nostro punto di vista, una delle chiavi per capire davvero quello che è successo. Il leader del maggiore sindacato confederale, pronunciando quelle parole, apparentemente si difende dagli attacchi, ma nello stesso tempo ammette il problema più grave del sindacalismo contemporaneo: quello della difficoltà di rappresentare un mondo del lavoro completamente trasformato e in continua mutazione. La lotta contro una generalizzata condizione precaria non si può certo esaurire con un referendum. Il sindacato e le sinistre lo sanno benissimo: si deve ripartire dal superamento delle leggi sbagliate proponendo leggi migliori. Comincia a circolare, per esempio (ma finora solo tra gli addetti ai lavori), l’idea di una legge sulla “piena e buona occupazione”. E ci sono idee anche sulla riduzione dell’orario di lavoro di chi ha contratti stabili, e proposte per superare la frammentazione professionale. Si dovrebbe ricominciare perfino a parlare di emancipazione dall’alienazione e di liberazione, sfruttando e non subendo la grande rivoluzione tecnologica. Si deve, inoltre, superare un atteggiamento a volte nostalgico di chi spera che si possa riproporre, aggiornandolo, lo schema mitico di una classe operaia, soggetto unico della rivoluzione.
Si deve ripartire dalla sconfitta, o dalla “non vittoria”, di domenica per costruire un futuro possibile, valorizzando nel contempo i segnali positivi, come quelli che sono arrivati da molte zone del Paese e da tanti quartieri di Roma, dov’è stato superato il 50% dei votanti, e dove i “sì” hanno stravinto. Nella grande confusione di questo periodo, abbiamo chiaro anche un altro punto. Gli attacchi violenti contro il referendum e la partecipazione civica fanno parte della stessa logica del “decreto sicurezza”, la cui essenza è la volontà di restringere gli spazi di democrazia.
Per questo, la battaglia contro l’autoritarismo è oggi ancora più preziosa e decisiva per la sinistra, e anche l’esito dei referendum non potrà essere letto in modo univoco da nessuno. Neppure il futuro è scontato e già segnato. Mentre c’è chi si affretta a proporre di innalzare il tetto delle firme per chiedere una consultazione referendaria, c’è chi ne chiede l’abolizione totale, referendum senza quorum. Conquista dei diritti ed emancipazione sono cammini lunghi e pazienti. E forse aveva ragione Francesco Guccini, con la sua canzone sulle cinque anatre (1978): “Cinque anatre andavano a sud. Forse una soltanto vedremo arrivare. Ma quel suo volo certo vuole dire. Che bisognava volare”.