Nel suo editoriale del 3 aprile su “terzogiornale”, Rino Genovese (vedi qui) osservava giustamente che, con l’attacco al consolato iraniano di Damasco di qualche giorno prima, Netanyahu mostrava di voler allargare il conflitto in corso, anziché circoscriverlo. Dopo la risposta di Teheran, cioè l’attacco missilistico su Israele (peraltro quasi del tutto sventato, e la cui unica vittima è stata, tra l’altro, una bambina araba), questa volontà di estendere la portata del conflitto è stata affermata esplicitamente: il ministro della difesa Gallant, al termine della riunione di lunedì 15 aprile, ha infatti dichiarato che “Israele non ha altra scelta che rispondere all’Iran”, cioè quello di muovergli guerra. Ma qual è il motivo che ha spinto Netanyahu e il suo governo a una escalation da cui tutti i governanti occidentali, da Biden a Giorgia Meloni, sembrano volerlo trattenere? I motivi sono sia di ordine interno sia internazionale.
Facciamo un passo indietro e torniamo sullo scopo delle azioni israeliane a Gaza. È indiscutibile che Hamas rappresenti un pericolo non indifferente per la sicurezza di Israele, come dimostra l’azione terroristica del 7 ottobre, che ha rappresentato un grave smacco per Netanyahu: il primo ministro israeliano ha dimostrato, di fatto, di non saper garantire la sicurezza del Paese. La reazione era dunque inevitabile, ma, come ho scritto qualche tempo fa (vedi qui), il suo scopo reale non è, né può essere, l’eliminazione di Hamas, ma, semmai, svuotare Gaza dalla popolazione palestinese.
Tuttavia, posto che questo obiettivo venga realizzato, Israele potrebbe guadagnarci in termini territoriali, ma non dal punto di vista della propria sicurezza: nel territorio abbandonato dai palestinesi potrebbero stabilirsi altre decine di migliaia di coloni israeliani, ma, anche se tutti i palestinesi emigrassero nei Paesi arabi confinanti (il che non sembra facile), questo non porterebbe affatto alla scomparsa di Hamas. La storia insegna che è molto difficile estirpare una guerriglia se questa ha l’appoggio di una parte consistente della popolazione: qualcuno ha osservato che, mentre Israele ha vinto tutte le sue guerre (quella di indipendenza del 1948, quella di Suez nel 1956, quella dei sei giorni del 1967 e quella del Kippur del 1973), non è mai riuscita ad avere ragione dei movimenti di guerriglia (né in Libano contro Hezbollah nel 2006, né a Gaza contro Hamas, con l’operazione “Piombo fuso” del 2008). Da quanto si è visto in un servizio della catena televisiva franco-tedesca Arte, di qualche settimana fa, dentro Gaza non mancano manifestazioni anti-Hamas, ma la maggior parte della popolazione non può che essere sempre più esacerbata contro Israele. Questa esacerbazione aumenterebbe ancora di più in una nuova eventuale massa di profughi, il terreno di coltura ideale per una nuova leva di combattenti (o di terroristi, se li si vuole chiamare così). È presumibile che Netanyahu lo sappia benissimo, ma, se vuole mantenersi in sella, quello che può fare è cercare di limitare drasticamente la potenza militare di Hamas, e quindi i rischi per la sicurezza di Israele (almeno nel breve termine). Qui si torna al comportamento del suo governo nei confronti dell’Iran.
L’Iran fornisce a Hamas l’appoggio militare, come lo fornisce alle milizie sciite dello Yemen (gli Huthi) e del Libano (gli Hezbollah), queste ultime particolarmente pericolose per Israele, anche se finora non hanno mostrato l’intenzione di impegnarsi in un conflitto aperto, a differenza di quanto accaduto nel 2006. Un indebolimento considerevole, se non una totale distruzione, dell’apparato militare iraniano non può che essere, dunque, nell’interesse di Israele. Il regime degli ayatollah non poteva fare a meno di reagire all’attacco subito dal proprio consolato di Damasco, e anche in questo caso hanno giocato ragioni di politica interna: l’assenza di qualunque tipo di reazione sarebbe stata infatti interpretata come un segnale di debolezza; e questo avrebbe fatto il gioco degli oppositori del regime, che certamente non mancano, anche se finora, purtroppo, sono sempre stati perdenti.
Questa reazione – hanno però rilevato molti analisti – è stata molto più di facciata che di sostanza: addirittura, pare che gli stessi Stati Uniti siano stati avvertiti del lancio di missili, in modo da poter mettere in allarme la propria contraerea e allertare anche quella di Paesi confinanti con Israele, come la Giordania. Si è trattato, in sostanza, di una “battaglia da parata”.
Questa battaglia può fornire però a Israele il pretesto per assumere nuovamente il ruolo di vittima, che era certamente giustificato dopo il 7 ottobre, ma che il suo comportamento a Gaza aveva progressivamente trasformato in quello di carnefice. Continuare a sterminare la popolazione civile, a distruggere gli ospedali, arrivare addirittura a uccidere membri di organizzazioni umanitarie, gli ha procurato le critiche anche severe di vari politici occidentali (si pensi a quelle del ministro degli Esteri britannico, Cameron) e gli ha alienato le simpatie di gran parte dell’opinione pubblica internazionale, che non si lascia più abbagliare tanto facilmente dalle accuse di “antisemitismo” o dagli appassionati appelli a “difendere la civiltà occidentale” (come se si fosse alla viglia di un’altra battaglia di Poitiers). Ora è lo Stato ebraico a essere di nuovo sotto attacco e può invocare il “diritto a difendersi”; e, dato che l’esercizio di questo diritto implica, in questo caso, un attacco diretto all’Iran, con la conseguente possibile distruzione del suo apparato bellico, l’unico obiettivo di Netanyahu effettivamente realizzabile sarebbe raggiunto: l’eliminazione del sostegno militare a Hamas e ai suoi alleati.
Tutti i governi occidentali, a cominciare da quello statunitense, in questo momento invitano Israele a non insistere nell’escalation. Ma fino a che punto si può essere fiduciosi che un tale invito sarà accolto? Non sembra che inviti analoghi, relativamente al comportamento dell’esercito israeliano a Gaza, abbiano sortito grandi effetti. Inoltre, mentre l’attacco missilistico “da parata” dell’Iran contro Israele è stato oggetto dell’esecrazione di tutti i governi occidentali, molto più blande sono state le condanne del bombardamento (con vittime) del consolato iraniano di Damasco. Israele non ha mai rivendicato ufficialmente l’azione, ma non ha mai neppure negato le sue responsabilità (sarebbe stato difficile).
A chi ha osservato che le sedi diplomatiche dovrebbero essere per principio esenti da azioni di guerra, vari esponenti israeliani (come l’ambasciatore in Italia) hanno risposto che nel consolato di Damasco si trovavano dei terroristi e che l’Iran non poteva elevare nessuna protesta, in quanto già responsabile di azioni violente contro consolati o ambasciate di altri Paesi. In effetti, tutti ricordiamo l’invasione dell’ambasciata americana a Teheran, nel novembre 1979, da parte degli “studenti islamici”, con il sequestro di buona parte del personale, che si protrasse per oltre un anno. Il regime degli ayatollah giustificò l’azione sostenendo che dentro l’ambasciata si stava tramando per il ritorno dello scià, come era già accaduto nel 1953. Molto probabilmente, questo era vero: ma nessun politico o media dei Paesi occidentali lo considerò un motivo, anche solo in parte valido, per giustificare l’azione.
Certamente, è possibile che un attacco in forze di Israele contro l’Iran provochi nuovamente l’isolamento dello Stato ebraico; ma è altrettanto certo che avrebbe conseguenze imprevedibili, anche a brevissimo termine. E chi ci dice che le risposte iraniane, che potrebbero anche non limitarsi al territorio israeliano, non rafforzerebbero le file di quei politici e quegli opinionisti che un giorno sì e l’altro pure ci chiamano alla “difesa della civiltà occidentale”? Di questa civiltà occidentale, Israele, sarebbe dipinto come l’avamposto (e quindi sarebbe tutt’altro che isolato).