Resta solo da augurarsi che gli israeliani riescano a sbarazzarsi al più presto di un governo che li conduce in un vicolo cieco, la cui unica ragion d’essere sta nella guerra perpetua e nell’opposizione pregiudiziale a qualsiasi ipotesi di negoziato che porti alla formazione di uno Stato palestinese. L’attacco perpetrato a Damasco contro la sede diplomatica iraniana ha dell’inaudito: non si cerca di circoscrivere il conflitto ma anzi di allargarlo, con una sfida che mette apertamente in conto l’escalation. L’Iran ha fin qui evitato di essere coinvolto in quanto Stato, lasciando alle sue controfigure in quella regione – essenzialmente gli hezbollah libanesi – di colpire Israele con una potenza di fuoco in verità limitata. Ma il bombardamento di una sua sede diplomatica, l’uccisione di un generale e altri suoi militari, spinge, o si potrebbe dire costringe, l’Iran a una risposta. A cui però farebbe seguito la replica israeliana, con un ulteriore avvitamento nella spirale di violenza mimetica (vedi qui) che, fin dalle origini, ha accompagnato la storia dello Stato che ha per insegna la Stella di David.
A noi, che abbiamo guardato con rispetto alla prospettiva di quella che ci siamo sempre rifiutati di chiamare semplicemente “entità sionista”, il modo in cui – nel corso degli anni, dopo un processo di pacificazione che pareva avviato – si sia arrivati all’attuale grado di distruttività crea sconcerto. Non possiamo giustificare la guerra di sterminio a Gaza (con gli attacchi agli ospedali e l’eliminazione mirata persino del personale deputato all’intervento umanitario); e soprattutto non riusciamo a comprendere che cosa politicamente possa attendersi Israele da questo isolamento internazionale in cui si sta cacciando. L’Onu, le sue risoluzioni, non contano niente per il governo di estrema destra di Netanyahu; perfino la circostanza che l’eterno alleato, gli Stati Uniti, per una volta non abbia posto il veto a una deliberazione del Consiglio di sicurezza, non scalfisce in alcun modo le certezze israeliane.
Eppure lo Stato ebraico dovrebbe essere consapevole che non è con la forza che un giorno l’obiettivo di una vita sottratta all’incubo della incessante violenza reciproca potrà essere raggiunto, ma con il consenso in primis della comunità internazionale. A questo punto, non solo i rapporti con l’Iran sembrano avviati verso l’escalation bellica, ma perfino le relazioni con gli Stati arabi, che pure avevano lasciato al suo destino la causa palestinese, finiranno con l’essere compromesse. Per quanti palestinesi si riescano a cacciare, infatti, più o meno altrettanti finiranno nei Paesi limitrofi (in Giordania, in Egitto) portando di nuovo in primo piano la questione palestinese. In fondo è su questo che Hamas aveva scommesso con l’attacco del 7 ottobre. E dal suo punto di vista l’operazione appare del tutto riuscita, nonostante il contenuto non soltanto feroce nei confronti degli israeliani, ma anche sacrificale nei riguardi della stessa popolazione di Gaza, presa nell’alternativa impossibile tra la fuga e la morte. Come Hamas – su cui, un tempo, gli israeliani avevano addirittura puntato per via della divisione che seminavano nel campo palestinese – rifiuta un negoziato che riconosca l’esistenza dello Stato israeliano, così Israele non riconosce la soluzione “due popoli due Stati”. E allora? Dal misconoscimento reciproco deriva appunto la guerra perpetua.
Non è questa, tuttavia, la “stella della redenzione” che i sionisti del passato (quelli dell’epoca dei nazionalismi trionfanti un po’ dappertutto) si aspettavano che brillasse sul loro “ritorno” nella “terra promessa”. In un certo senso, lo stato di guerra permanente è la più cruda confutazione della sovrapposizione tra religione e politica intorno a cui si è formato il movimento sionista. Soltanto uno Stato post-sionista potrebbe oggi liberarsi da questa dannazione.