Siamo tutti nati da cose imperfette. Tutti incerti, in equilibrio precario. Qualsiasi bellezza di cui possiamo risplendere è scavata dentro questa fragilità. Le storie degli “errori” sono tante e meravigliose. Come quella di Galileo che, puntando il cannocchiale nella direzione sbagliata, riuscì a vedere la luna; o quella di Michelangelo, che diede vita al suo David da un blocco di marmo scadente. Dagli errori genetici, motore dell’evoluzione, a quelli umanissimi che ogni giorno ci fanno cadere, rialzare, perdere e innamorare. È proprio dal caos e dall’imperfezione che nascono le cose più belle.
“Ho scoperto che sono (corpo e anima) una macchina per sbagliare: lo vuole Dio, lo vogliono la fisica, la biologia, la chimica, la mente. E non solo io, ma l’intero genere umano; anzi, tutto ciò che vive”. Pino Aprile ce lo ricorda nel suo Elogio dell’errore (edito da Piemme).
Vivere in società obbliga al rispetto di regole comuni. La regola è violenza, perché vieta dei comportamenti e ne impone altri. Più le persone sono contenute, maggiore è la violenza che devono fare su se stesse; più le società sono ordinate, più feroce è il codice di tradizioni, norme e leggi che le mantengono tali. La norma crea un confine, l’errore lo sfonda. Una regola, anche fisica, biologica, dice che il mondo cambia lungo i margini, o, in altro modo: in natura le cose più interessanti accadono ai confini. Si potrebbe essere tentati di dar ragione a George Bernard Shaw, quando dice: “Ogni forma di progresso dipende dall’uomo irragionevole”. Ma non è vero: anche l’uomo ragionevole può fare la sua parte; purché, almeno ogni tanto, ragioni male, storto, a cavolo.
In una società che ci vorrebbe sempre perfetti, diventa ogni giorno più importante tornare a comprendere la valenza di uno sbaglio e la sua portata all’interno del cammino di formazione di ciascun individuo. L’errore dipende anche dall’ambiente in cui si agisce. Non è l’azione in sé, ma anche il luogo in cui viene manifestata che contribuisce a definire se è giusta o sbagliata. Luogo inteso come contesto sociale: in famiglia si può, a scuola spesso no.
I 170 ragazzi che si sono autodenunciati per avere occupato lo storico liceo Tasso di Roma rischiano il cinque in condotta e dieci giorni di sospensione. La linea dura incassa “l’apprezzamento” del corpo docente e del ministro dell’Istruzione, Giuseppe Valditara, “per la fermezza dimostrata” in merito alle occupazioni dell’istituto. Questa è la premessa: chi occupa una scuola lo fa per manifestare un disagio e porre domande. Ma se le risposte che arrivano sono il cinque in condotta e le sospensioni con lavori socialmente utili, non ci siamo proprio. Qualcosa non sta funzionando. II tema dell’errore è un tema interessante perché ha a che fare con la teoria della scelta razionale, che va tuttora per la maggiore nelle scuole. Qui l’errore è considerato come pura irrazionalità, come scarto rispetto al comportamento razionale.
Chiariamo. È un argomento polarizzante: vi sono coloro che credono che qualsiasi errore vada punito; ci sono invece quelli che sostengono che le punizioni non servano a nulla. E poi c’è chi sta in mezzo, chi in teoria non vorrebbe castigare, ma poi qualche volta non riesce proprio a farne a meno e finisce inevitabilmente con il chiedersi: servirà a qualcosa?
Raffaele Mantegazza estende ancora di più il dibattito (interessante lo spunto di riflessione) e sostiene che “il lavoro socialmente utile dovrebbe essere un desiderio da parte dei ragazzi. L’idea che diventi qualcosa di obbligatorio e punitivo non può andar bene. Certo le sospensioni non servono, ma bisogna lavorare a monte per creare un clima in classe e a scuola dove il gruppo impara ad auto-regolamentarsi. È un lavoro lungo e faticoso ma che responsabilizza anche alla vita adulta”.
La scuola che punisce è una scuola che fallisce. Il sistema delle sospensioni è equivoco, perché crea respingimento nei confronti degli studenti che hanno più bisogno. Le sospensioni si sono rivelate inutili, ma sostituirle con il lavoro socialmente utile significa trasformare il darsi da fare per gli altri in una punizione; rischia di risultare un boomerang terribile per la scuola. Punire l’errore significa curare i sintomi invece della malattia che li ha provocati. Fuor di metafora, un buon maestro fa sì che l’insegnamento avvenga in un regime di crescita, non di blocco. Se porto uno studente nel bosco e gli mostro quali sono i funghi velenosi, le erbe da non raccogliere, gli animali da evitare, probabilmente da grande amerà passeggiare nel verde. Se invece lo abbandono nella foresta, perché apprenda le dure leggi di natura, otterrò l’unico effetto di terrorizzarlo. Non vorrà più vedere un albero neppure al cinema
Qual è, dunque, il sistema correttivo più equo per sviare un comportamento sbagliato? Ce n’è uno: parlare, ragionare, accompagnare nella scoperta. Un dialogo aperto, che permetta di fare un salto culturale. Il riferimento è al dialogo platonico, che è l’esempio sommo, poiché procede senza uno schema fisso e senza una tesi che, se esiste, si definisce progressivamente e sembra come uscire dal dialogo stesso. E quindi? Insegniamo a considerare i limiti delle illusioni e a credere che anche senza ali si può volare.