Il Kosovo non parteciperà alle manovre militari della Nato denominate “Defender 23” che coinvolgono ventisei Paesi dell’Alleanza atlantica. Lo hanno deciso lo scorso primo giugno gli Stati Uniti: una ritorsione contro l’ostinazione del premier Albin Kurti, che ha rifiutato di ritirare i sindaci kosovaro-albanesi dal nord del Paese, zona a maggioranza serba. I candidati dei comuni di Zvečan, Zubin Potok, Leposavić e Mitrovica Nord sono stati eletti con la partecipazione al voto del 3% degli aventi diritto, a causa del boicottaggio della maggioranza serba presente nella parte nord, che non riconosce, al pari di Belgrado, il Kosovo come Stato indipendente.
Insomma, anche chi ha posto le fondamenta per creare questo “piccolo mostro balcanico”, governato dall’aprile 2016 al novembre 2020 da Hashim Thaçi – arrestato e processato per crimini di guerra e contro l’umanità – ha le tasche piene di una situazione che solo con un ridimensionamento delle pretese del governo di Pristina può tornare alla calma, sia pure momentanea. Per la prima volta, le sanzioni a stelle e a strisce vengono comminate a un Paese amico, all’indomani degli scontri scatenati il 29 maggio scorso dai kosovari serbi, che hanno circondato la sede del Municipio di Zvečan per impedire al nuovo sindaco di insediarsi. Nel contempo, sono stati coinvolti i soldati della missione della Nato Kfor (Kosovo force), che ha il compito di gestire la delicata situazione, con un bilancio di 52 dimostranti e 34 soldati feriti, tra i quali due italiani.
Tensione alle stelle, dunque, che ha comportato l’allerta della Orf (Forze di riserva operativa), i cui tempi di intervento sono stati dimezzati da quindici a sette giorni. “Per il Kosovo questa esercitazione è finita” – aveva annunciato l’ambasciatore statunitense a Pristina, Jeffrey Hovenier, suscitando la reazione sorpresa di Kurti, il quale ha messo in guardia l’Occidente, e in particolare gli Usa, su una possibile escalation del conflitto che dipenderebbe solo da Belgrado. Una lettura degli eventi quanto meno singolare, visto che ad accendere la miccia è stato il governo di Pristina sulla gestione delle elezioni. Da qui il richiamo della Casa Bianca, che tutto vuole fuorché l’apertura di un nuovo fronte, che vedrebbe coinvolta anche la Serbia di Vučić.
Per calmare le acque la soluzione consiste in nuove elezioni nel nord del Paese. Ipotesi che Kurti non ha escluso, a patto che finiscano gli atti di violenza. “Se fosse stata una protesta pacifica, avrebbe avuto la mia comprensione – ha detto il premier kosovaro –, ma non una manifestazione folle con la lettera Z (simbolo filorusso, ndr), dove sparano a soldati e poliziotti, lanciano granate, gridando ‘uccidi, uccidi’” – dimenticando che a inasprire la situazione sono state le elezioni da lui stesso indette. Ricordiamo che la minoranza serba ha mantenuto targhe automobilistiche e documenti serbi (vedi qui). La posta in gioca è alta. La Serbia è sempre stata filorussa, ma prima della guerra in Ucraina Vučić non ha nascosto i propri interessi nei riguardi dell’Europa, ipotesi ora lontanissima.
La storia del Kosovo è complessa ed è stata foriera dei peggiori mali della terra: repressione, guerra, bombardamenti, vittime civili e quant’altro. Con la morte di Tito, nel 1981, e il successivo sfaldamento della Repubblica federale jugoslava, le cose cambiarono anche per Pristina: “Dal 1974 il Kosovo era una provincia autonoma all’interno della Repubblica federale di Jugoslavia – dice Blerina Rogova Gaxha, poetessa e scrittrice nel sito di informazione “Vox Europ” pubblicato da “Internazionale” –, ma nella primavera del 1989 il Kosovo perse questo status e finì sotto il controllo diretto dello Stato di polizia serbo. Le vite dei miei genitori e la mia infanzia furono stravolte. Sotto lo stato d’emergenza non si poteva più pensare di vivere una vita normale. La ‘vita migliore’, concetto di titina memoria, era ormai superato”.
Da allora la politica serba nei confronti della piccola regione (è grande come l’Abruzzo) fu portata avanti all’insegna della repressione da parte di Belgrado. Dopo un anno di scontri tra le truppe federali jugoslave e l’Esercito di liberazione del Kosovo (l’Uçk), una vera e propria organizzazione criminale che soppiantò il movimento pacifista kosovaro di Ibrahim Rugova, la Nato scatenò il 24 marzo 1999 una feroce guerra, mai autorizzata dall’Onu, contro Belgrado – alla quale partecipò anche il governo D’Alema – che causò centinaia di morti in un Paese già piegato dall’embargo. Il conflitto terminò con l’accordo di Kumanovo, siglato il 9 giugno 1999, che istituì la missione Kfor della Nato, il cui contingente con il passare degli anni è passato da quattromila a ottocento unità, per poi essere di nuovo rinforzato in questi giorni con l’arrivo di settecento militari turchi.
Come abbiamo detto, quello che, almeno nel periodo della presidenza Thaçi, non esitiamo a definire un narco-Stato, proclamò l’indipendenza nel 2008, immediatamente riconosciuta solo da 101 Stati su 193. A dire no a una decisione unilaterale anche membri dell’Unione europea, come Grecia, Spagna, Cipro, Romania e Slovacchia. Per conseguire il pieno riconoscimento servirebbe il parere favorevole dei due terzi dell’Assemblea generale dell’Onu: obiettivo sempre più lontano da raggiungere, vista anche la guerra tra Russia e Ucraina che non può non ripercuotersi fatalmente nel Kosovo. Così rischia il fallimento il tentativo dell’Europa e degli Stati Uniti di normalizzare i rapporti tra Belgrado e Pristina, grazie all’impegno della Francia e della Germania. Il tema era stato posto all’ordine del giorno – lo scorso 18 marzo a Ohrid, in Macedonia del Nord – al termine di un vertice tra Kurti e Vučić, mediato dall’alto rappresentante Ue Josep Borrell. Pur non avendo sottoscritto nulla, l’aria che si respirava era una volta tanto positiva. Il fine era quello di creare un’associazione delle municipalità a maggioranza serba nel nord del Kosovo. Ipotesi non proprio ben vista da Kurti, ma che comunque avrebbe disinnescato la mina kosovara, favorendo il ricollocamento della Serbia nell’area europea. Uno sforzo, almeno per il momento, vanificato con il compiacimento di Mosca.
Come la storia insegna, pochi chilometri quadrati di territorio e un numero limitato di persone diventano fonte di conflitti lunghi e sanguinosi. A maggior ragione se dietro quel fazzoletto di terra si nasconde un mito nazionale testimoniato dalle tante chiese ortodosse presenti in quel territorio. Al riguardo, il 1389 è un anno cruciale per il nazionalismo serbo, con l’epica battaglia della Piana dei Merli contro le truppe dell’Impero ottomano, durante la quale per la prima volta perse la vita un sultano. Un ricordo che è stato tramandato nei secoli, fino ad arrivare ai campi da tennis del Roland Garros, dove nei giorni scorsi il campione serbo Novak Djokovic è stato inondato di critiche per avere scritto su una telecamera: “Il Kosovo è il cuore della Serbia. Stop alla violenza”.
Quali possano essere le prospettive ce lo spiega Giorgio Fruscione, ricercatore dell’Ispi (Istituto studi politiche internazionali) per i Balcani. Il tema è il boicottaggio “delle istituzioni kosovare e delle conseguenti elezioni. In particolare, gli eventi nel nord del Kosovo sono uno scambio di ricatti politici: Belgrado – sottolinea Fruscione – chiede maggiore rappresentanza minacciando boicottaggi, Pristina vuole esercitare la propria sovranità. Non è solo una questione identitaria, ma anche di legittimazione politica e istituzionale. La crisi in corso – sottolinea il ricercatore – danneggia innanzitutto la popolazione locale e va a vantaggio della Russia che, sebbene non abbia alcun ruolo diretto in queste tensioni né sostenga una qualche iniziativa diplomatica, sfrutta l’instabilità della regione su cui esercita una decennale influenza”.
Detto questo, siamo di fronte a un altro frutto avvelenato della politica dell’Alleanza atlantica che – dall’attacco del 1999, evidente avvertimento alla Russia ma anche alla Cina, la cui ambasciata venne bombardata, provocando la morte di tre giornalisti – è riuscita solo a porre le basi di una pericolosa quanto perenne instabilità. Ancora una volta nel cuore di un’Europa incapace di tutelare i propri interessi.