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Unione europea, morbido ritorno all’austerità?

Coloro che avevano sperato in un definitivo cambiamento della politica monetaria di Bruxelles e della Bce potrebbero essere presto delusi

10 Marzo 2023 Paolo Barbieri  508

Qualcuno, di fronte alla reazione europea dinanzi alla pandemia da Covid-19, aveva coltivato la speranza (o l’illusione?) che i dogmi dell’austerità europea e il deficit di solidarietà interna fra i Paesi membri potessero essere finalmente superati, dopo la rottura del tabù del debito comune e il contestuale aumento della dotazione di bilancio dell’Unione. Quella speranza è destinata a essere messa alla prova, forse a dura prova, dalla riforma del Patto di stabilità e crescita, sul quale, se si raggiungerà un accordo nel prossimo vertice dei ministri economici, è attesa in primavera la proposta legislativa dalla Commissione. La bozza presentata nei mesi scorsi da Bruxelles è una riforma vera, con cambiamenti concreti: una maggiore flessibilità nel raggiungimento degli obiettivi di rientro del debito pubblico e un tentativo di sottrarre alla mannaia delle norme Ue almeno gli strumenti necessari alla crescita economica (a partire dagli investimenti). La mannaia delle procedure per deficit eccessivo, infatti, sebbene presumibilmente in forme rinnovate, tornerà a operare a partire dal 2024, con lo stop alla clausola di salvaguardia, che ha sospeso fino alla fine di quest’anno le regole del Patto di stabilità in conseguenza della crisi generata dalla pandemia.

Il superamento della clausola di salvaguardia è un altro dei passaggi in corso in direzione di un ritorno alla “normalità” che ha già visto la clamorosa rivincita dei “falchi” della Banca centrale europea che, viaggiando di conserva con la Fed statunitense, hanno imposto la linea del rialzo continuo dei tassi e il taglio degli acquisti di titoli pubblici che sta già dispiegando i suoi effetti sulle casse dello Stato italiano. L’entusiasmo dei “falchi” per il ritorno alle ricette tradizionali della politica monetaria (a dispetto dei costi che la salita dei tassi comporta: si parla di probabile “recessione tecnica” in Europa per i prossimi mesi) è tale da avere costretto addirittura il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, a protestare: “Non apprezzo – ha spiegato – dichiarazioni su prolungati aumenti dei tassi”. Ma mentre sulla politica monetaria un minimo di dibattito si è visto, sul frettoloso rientro nella gabbia delle norme europee sui bilanci si è steso un velo di silenzio. Un po’ come l’alternarsi delle stagioni; si tratta, a quanto pare, di un evento inevitabile.

Quando Draghi faceva appello allo Stato

È appena il caso di ricordare che solo tre anni fa, in un intervento pubblicato dal “Financial Times”, fu Mario Draghi, ancora lontano da incarichi di governo, a ricordare l’imprescindibile ruolo dello Stato nella gestione delle crisi globali. “Il giusto ruolo dello Stato – scriveva l’ex presidente della Bce – sta nel mettere in campo il suo bilancio per proteggere i cittadini e l’economia contro scossoni di cui il settore privato non ha alcuna colpa, e che non è in grado di assorbire. Tutti gli Stati hanno fatto ricorso a questa strategia nell’affrontare le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più significativo della crisi in atto – si finanziavano attingendo al debito pubblico”.

Qui, a giorni alterni, ministri e autorità pubbliche, di varie nazioni europee e non, ci ricordano che siamo in guerra, sia pure ufficialmente senza truppe sul terreno, addirittura a difesa della nostra civiltà occidentale. E che l’impegno a sostegno dell’Ucraina abbia un costo sarebbe arduo contestarlo. Eppure, prima ancora che la riforma del Patto di stabilità veda formalmente la luce – mancano diversi passaggi non scontati – la Commissione Ue già indica la strada per il ritorno alla presunta “normalità”. Il commissario europeo all’Economia, Paolo Gentiloni, presentando le “linee guida” per le politiche di bilancio del 2024, le ha definite come “un ponte tra le vecchie regole e le regole future”. E ha ricordato come l’orientamento del vertice Ue sia quello di non tornare alle “vecchie logiche che un tempo chiamavamo dell’austerità: perché la massa di investimenti che abbiamo davanti, e che è necessaria per la transizione ecologica, per l’innovazione delle nostre imprese, per la competitività internazionale, è tale che messaggi di austerità non avrebbero alcun senso”. L’accento sulla necessità di non strangolare la crescita è certamente un’evoluzione nel pensiero di uno dei più ligi esecutori dei dettami austeritari: la lezione della pandemia, la parziale svolta imposta all’Europa da quello shock, è alla radice della convinzione espressa dall’ex presidente del Consiglio italiano secondo il quale “se non si riesce a mantenere la crescita, se non si riescono ad assorbire le risorse europee, certamente sarà molto difficile ridurre il deficit”.

Almeno la narrazione fantasy dell’austerità espansiva in questa fase ci viene risparmiata. Alla ricerca di un nuovo equilibrio fra crescita economica e contenimento/riduzione del deficit e del debito, Gentiloni ha puntato il dito sulla spesa corrente da tenere sotto controllo, ed è sembrato voler esprimere un endorsement all’indirizzo dell’esecutivo Meloni, a nome della Commissione, quando ha ricordato che “il governo italiano ha preso decisioni piuttosto rilevanti, negli ultimi mesi, per limitare i rischi di spese non giustificate”. A cosa faceva riferimento Gentiloni? Forse alla determinazione con la quale il ministro Giorgetti ha aggredito misure come il reddito di cittadinanza o il superbonus per l’efficientamento energetico del patrimonio edilizio (tema trattato più volte da “terzogiornale”, recentemente qui)?

Verso il nuovo Patto di stabilità

La riforma ipotizzata dalla Commissione non abbandona del tutto i vecchi riferimenti del Trattato, ovvero il 3% del deficit di bilancio e il 60% del rapporto debito/Pil, ma si propone di superare alcuni degli strumenti più criticati nella valutazione della situazione dei diversi Paesi membri, a partire dai discussi termini di deficit strutturale e Pil potenziale. L’aspetto più interessante è forse che si individua un periodo fra i quattro e i sette anni per la certificazione del fatto che il debito del singolo Stato si trovi su un percorso di riduzione plausibile e continuo (on a plausibly and continuously declining path). Restano criticità, alcuni degli strumenti econometrici usati per le valutazioni anche nella nuova versione del Patto sono stati criticati da alcuni economisti, perché fumosi e non sufficientemente trasparenti e misurabili in maniera oggettiva. Ma fra le preoccupazioni da segnalare ce n’è una, in particolare, che vale la pena di annotare. È stata resa pubblica a conclusione dei lavori del Coreper (Comitato dei rappresentanti permanenti), il consesso degli ambasciatori che ha il compito di preparare gli ordini del giorno dei Consigli europei. Il quadro dei piani nazionali di rientro dal debito, previsti nella riforma, scrivono gli ambasciatori, “dovrebbe tenere debitamente conto della necessità di consentire al processo democratico negli Stati membri di plasmare le loro politiche economiche. Pertanto, tutti i piani potrebbero essere allineati, su richiesta, al ciclo elettorale nazionale, rivisti con l’arrivo di nuovi governi e aggiornati in circostanze oggettive, pur mantenendo l’ambizione dell’aggiustamento fiscale”.

Da vecchi affezionati a quel simbolo un po’ appannato della democrazia che è la sovranità popolare (quella dell’articolo 1 della Costituzione, non la confusa rimasticatura nazionalistica del cosiddetto sovranismo), ci sentiamo di condividere la preoccupazione espressa dagli illustri componenti dell’organismo consultivo europeo: facciamo che le elezioni contano ancora qualcosa, anche per i Paesi indebitati? Facciamolo, prima, possibilmente, di trovarci qualcos’altro che le sostituisca.

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