Un clima singolare ha avvolto l’attesissima decisione con cui la procura di Bergamo ha concluso la lunga inchiesta su quanto è accaduto nei comuni bergamaschi durante la prima fase della pandemia, con avvisi di garanzia per reati gravissimi, quali l’epidemia colposa e l’omicidio plurimo colposo, all’ex presidente del Consiglio Conte, all’ex ministro della Sanità Speranza, al presidente della Regione Lombardia, Fontana, e all’ex assessore alla Sanità, Gallera, e con loro all’intera struttura di comando del Comitato tecnico-scientifico che ha governato la strategia anti-Covid nella fase iniziale. Completamente snobbati dalle reti tv, che non hanno ritenuto di approfondire il tema con speciali o forum, e strattonati a seconda della propria latitudine ideologica dai giornali, se non completamente ridimensionati, come ha fatto “Repubblica” – sembra quasi che non si comprendano la logica e soprattutto le conseguenze della scelta della procura, e che si tema di fare passi falsi o contraddittori.
Anche perché, lo vedremo fra poco, tutto il lavoro dei magistrati si basa sulla pietra angolare della perizia che, in sei mesi di ricerche e deduzioni, ha depositato alla fine del 2021 Andrea Crisanti, allora consulente della procura – virologo di vaglia internazionale, oltre che straordinario operatore sul terreno, con il suo provvidenziale intervento che soffocò, sul versante veneto, la diffusione dell’epidemia che invece esplose in Lombardia – e oggi senatore del Pd.
Un documento che non lascerebbe spazio a incertezze nel rispondere alla domanda che hanno posto i magistrati inquirenti: cosa è successo nei giorni precedenti al lockdown nazionale? Chi ha perso tempo? Chi, pur sapendo della gravità del fenomeno, non ha agito? Come poteva essere usato il piano pandemico che, per quanto non aggiornato, rappresentava comunque uno strumento per l’emergenza? Sono quesiti che puntano al cuore della politica, e pretendono di ricostruire la dinamica dei ruoli e delle funzioni nelle ore più drammatiche. Ma soprattutto, con quella perizia, Crisanti documenta un aspetto fondamentale e ancora discusso: la relazione certa fra i ritardi e il numero delle vittime. Un fattore che appare non relativo o discrezionale, ma fermamente determinato dalle acquisizioni scientifiche sulla dinamica della pandemia.
Siamo dunque a un passaggio cruciale, che dovrebbe permettere di rendere meno oscura e intricata una fase della vita repubblicana che ha pesantemente inciso su migliaia di famiglie, oltre ad aver determinato il successivo sbocco politico. Pensiamo, peraltro, alle recenti elezioni lombarde, e ai risultati raccolti proprio dai vertici della giunta regionale uscente, nelle zone dove più devastante è stata l’azione del virus.
L’epicentro dell’istruttoria è collocato in quei giorni – dal 22 febbraio all’8 marzo del 2020 –, quando divamparono i focolai irrefrenabili del contagio, prima al confine del lombardo-veneto, fra Codogno e Vo’ Euganeo, dove si registrarono i primi due morti, il 21 febbraio, e successivamente nella Val Seriana, attorno a Bergamo, nei comuni di Nembo e Alzano, dove si sarebbe poi registrata una mattanza che, in poche settimane, arrivò a quasi quattromila vittime.
In quel terribile gorgo, in cui il virus corse liberamente, infestando ospedali e case di cura, e in cui – si rileva dalle indagini – per almeno settantadue ore, diciamo fra il 2 e il 5 marzo, si verificò un disarmante rimbalzo di responsabilità fra il governo e i vertici della Lombardia, in cui ognuna delle due istituzioni sembrava che volesse consegnare all’altra il cerino bruciante della decisione più drastica: chiudere la produttivissima zona bergamasca, così come venne chiusa l’area della Bassa lombarda dopo le prime vittime.
Quel ritardo, causato dal tormentato ping-pong fra Roma e Milano – spiegano gli inquirenti – costò almeno quattromila morti che si potevano evitare. Un dato, questo, che viene proprio documentato dal lavoro di Crisanti che ricostruisce, passo dopo passo, l’intero intricato carteggio che si gonfia nelle ore più tragiche: siamo appunto al 2 marzo sera, in cui persino il Comitato tecnico-scientifico riconosce che siamo oltre i limiti consentiti, e bisogna chiudere subito i territori bergamaschi. In quel momento, si registrano – è questa la materia giudiziaria – vari dietrofront, in cui i dirigenti della Regione Lombardia, che avevano fatto intendere di voler procedere a misure emergenziali, chiedono prudenza al governo che, per parte sua, non pare proprio intenzionato a seguire i consigli del Comitato, nonostante il ministro Speranza avesse fatto preparare, in bozza, il decreto che proclamava la zona rossa ad Alzano e Nembo. Le pressioni che venivano dal mondo industriale erano fortissime, soprattutto a Milano. L’“Economist”, il settimanale guida dei centri finanziari europei, lanciava una copertina con il titolo Grim Calculus, invitando i governi ad accettare il rischio del contagio pur di continuare a produrre.
In questo marasma, si pone anche la questione del piano pandemico, che pur nella sua colpevole arretratezza, mancando da almeno sette anni un suo adeguamento,dava in ogni caso indicazioni utili, tutte nella direzione di un cambio di marcia, con un uso di massa delle mascherine, un isolamento completo delle unità sanitarie, ospedali e residenze per anziani, e drastiche decisioni sui focolai di infezione. Anche su questo punto – perché il piano rimase senza aggiornamento, e perché comunque non venne usato per le indicazioni utili che conteneva –, la procura si muove con una documentazione che addebita ai vertici del Comitato tecnico-scientifico, e del Consiglio superiore della sanità, la responsabilità di quelle inadempienze.
Si segnalano situazioni davvero abnormi, come il puntiglioso richiamo che veniva in quei giorni dal vertice del Comitato a non usare i tamponi se non per i positivi, o a limitare l’uso delle mascherine.Ma l’aspetto macroscopico riguarda, in generale, quel rapporto fra Palazzo Chigi e il ministero della Sanità, in cui appare evidente che il presidente del Consiglio esercitò un ruolo del tutto incongruo nel commissariare, di fatto, il vertice ministeriale per adeguare tempi e modi della risposta al contagio a considerazioni più complessive e politiche. Su questo dobbiamo capire cosa accadde nei partiti della sinistra in quei giorni, e quali relazioni e input erano trasmessi alla delegazione di governo.
Proprio Andrea Crisanti, in un libro che uscì in quel periodo, Caccia al virus (Donzelli), scritto insieme al sottoscritto, volle introdurre la nostra conversazione sulle strategie contro il Covid-19 con una lettera aperta ai cittadini per richiamare l’attenzione su quanto si stava decidendo e su come si decideva. Si legge nella lettera introduttiva: “Le modalità e le proporzioni degli effetti tremendi della pandemia che ci ha colpito dal febbraio del 2020 non sono il frutto di un inesorabile destino, ma devono essere riconosciute come l’effetto di valutazioni e di informazioni non appropriate, giustificate parzialmente dalla comprensibile inesperienza di fronte a un evento inatteso, ma in parte indotte dall’incapacità di interpretare dati e processi scientifici. Ora, dopo più di un anno e mezzo di sacrifici e sofferenze, dobbiamo ancora riconoscere che senza una partecipazione piena e consapevole da parte degli italiani alle scelte politiche, non potremo mai uscire da questo labirinto”. Si stava parlando della politica che mancava. E i risultati elettorali dei mesi successivi si sarebbero incaricati di punire chi non volle ascoltare.
Il polverone ora comunque si alzerà. È ovvio che il fatto che il principale sostegno dell’accusa, Andrea Crisanti, sia oggi un senatore del Pd, sarà brandito come una clava dai difensori della Regione Lombardia, e magari anche dai professori del Comitato tecnico-scientifico, oltre che da Conte e Speranza. Ma sarebbe un pericoloso autogol. Una perizia scientifica deve innanzitutto essere confutata nel merito, tanto più se argomenta in maniera dettagliata le sue conclusioni. L’autore, inoltre, deve essere colpito nella sua onorabilità e prestigio umano, prima ancora che professionale, per ipotizzare una sua completa malafede.
Escludendo che qualcuno voglia incamminarsi su un sentiero tanto impervio, rimangono i fatti: come si è mosso il governo Conte nei giorni precedenti la deflagrazione del contagio? Come si è governato il ministero della Sanità, in cui sembra che agissero gruppi di potere e di strategie diversificati, non tutti riconducibili al ministro nel loro balletto macabro attorno al simulacro di piano pandemico? Cosa voleva ottenere la Regione Lombardia, in quelle ore, e con quali mezzi?
Sono quesiti che hanno immediatamente un risvolto giudiziario, ma non mancano di un significato politico. In un momento in cui l’intera sinistra si trova cosi spiantata dal tessuto sociale, cosi marginale nel dibattito politico, sarebbe determinante tornare alla tragedia della pandemia, quando la stessa sinistra ebbe ruoli e funzioni centrali, per capire cosa è accaduto, dove abbiamo sbagliato e cosa abbiamo sprecato nella capacità di dare un’impronta alla gestione di un’emergenza che coinvolgeva la natura costitutiva delle forze politiche progressiste, come la sanità e come le relazioni fra poteri istituzionali. L’indagine di Bergamo chiede a tutti di usare il terribile dolore che abbiamo alle spalle per dare a quelle vittime almeno il senso di un richiamo alle nostre coscienze, al fine di recuperare contenuti e valori che pendono a mezz’aria.