Sarà la crisi energetica che affligge il mondo, provocata dalla guerra in Ucraina, a spingere il Nord globale a guardare con occhi diversi il governo venezuelano di Nicolás Maduro, nonostante la maggior parte dei Paesi dell’Unione europea abbia riconosciuto a suo tempo Juan Guaidó come presidente e continui a riconoscerlo anche oggi? Sembrerebbe di sì, visto l’incontro che venerdì 11 novembre, a Parigi, ha fatto sedere a uno stesso tavolo Jorge Rodríguez, presidente del parlamento del Venezuela, e Gerardo Blyde, negoziatore di Guaidó. Assieme ai due, il neopresidente colombiano Gustavo Petro, quello argentino Alberto Fernández, il capo di Stato francese, Emmanuel Macron, e la ministra degli Esteri norvegese, Anniken Huitfeldt. Uniti nel proposito di esercitare pressioni affinché le due parti, in cui si divide da tempo il Venezuela, tornino a parlarsi in Messico, al fine di raggiungere accordi di tipo umanitario e politico. Offrendosi, inoltre, di vigilare sul processo che dovrà trovare una via di uscita dalla crisi in vista di elezioni presidenziali libere, democratiche e con osservatori elettorali internazionali, nel 2024.
C’è dunque un primo risultato concreto che apre qualche speranza alla ripresa di un nuovo negoziato tra opposizione e governo venezuelani, reso possibile da un oggettivo avvicinamento tra le due parti e da un ammorbidimento dello stesso Maduro negli ultimi mesi. Una situazione determinata, in primo luogo, in seguito al cambiamento della situazione internazionale, che sembra ridare al Venezuela un ruolo importante nello scacchiere mondiale, per via delle immense riserve energetiche di cui dispone.
La mancanza del gas russo può far sì che il Venezuela sia considerato come un potenziale alleato energetico, al quale sarebbe insensato rinunciare, nonostante la difficoltà posta dalle sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Ciò riguarda, in primo luogo, i Paesi europei, che non a caso hanno promosso il nuovo processo, con il presidente francese come capofila. Una conferma della necessità, sempre più impellente, di giungere a una ricomposizione della vicenda venezuelana come precondizione per poter accedere alle risorse petrolifere del Paese. Se l’Europa, tramite Macron, è sempre più decisa a muoversi, anche gli Stati Uniti, del resto, hanno fatto in passato timidi ma significativi passi in questo senso. E recentemente il “Wall Street Journal” ha anticipato che il presidente Biden, pressato dall’Unione europea, allevierà le sanzioni contro Caracas per permettere al petrolio venezuelano di tornare sul mercato.
Nel frattempo Parigi, nel quadro del quinto Forum per la pace, ha ospitato il nuovo incontro tra le due anime politiche del Venezuela, riproponendo la strada di un dialogo che ha visto clamorosi fallimenti, ma che ora potrebbe dare migliori risultati, visto l’interesse della comunità internazionale a considerare il Venezuela come un’opzione di fronte alla crisi energetica. Dal comunicato diramato dopo l’incontro, si è appreso che la riunione ha avuto come tema le elezioni presidenziali del 2024, il rilascio dei prigionieri politici e le misure atte a garantire le relazioni democratiche nel Paese. Nessun accenno, invece, alla ripresa dei negoziati a Città del Messico, la cui tempistica sarà decisa dalle due controparti venezuelane.
La presenza e il ruolo dei due presidenti latinoamericani si spiegano con la recente svolta a sinistra dell’America latina che, per quanto riguarda la Colombia, ha portato al ripristino delle relazioni diplomatiche con il Venezuela e alla riapertura delle frontiere. Nel corso dell’incontro, Petro ha proposto un’amnistia generale, con un patto di convivenza in vista delle elezioni e dopo di esse.
Il coinvolgimento dell’argentino Alberto Fernández si deve, invece, al fatto che Buenos Aires, esclusa la parentesi della presidenza di Mauricio Macri, è stata un solido alleato del Venezuela in questo secolo. Sotto la guida del peronismo – negli anni dal 2003 al 2015 e dal 2019 fino a oggi –, l’Argentina ha sostenuto una posizione relativamente vicina a Hugo Chávez, e ha sempre riconosciuto la legittimità del potere di Maduro. Dal canto suo, il presidente del parlamento venezuelano, Jorge Rodríguez, ha dichiarato che “siamo convinti che la strada del Venezuela sia il dialogo, la sospensione di tutte le sanzioni illegali e il rispetto della Costituzione”.
La mediazione di Macron, coadiuvato dai latinoamericani Gustavo Petro e Alberto Fernández, è l’ultimo episodio in una serie di tentativi tesi ad avviare colloqui tra il governo e l’opposizione. Il primo episodio risale al settembre 2016, quando Caracas ospitò una riunione alla quale parteciparono il Vaticano, la Spagna, Panama e la Repubblica dominicana. Anche se allora Jorge Rodríguez si era detto ottimista sui colloqui, che avrebbero dovuto avere “risultati accurati e rapidi”, il tentativo abortì rapidamente. L’anno seguente, altro tentativo nella Repubblica dominicana. Dove a fare da mediatori, tra i due contendenti venezuelani, furono il presidente dominicano, Danilo Medina, e l’ex capo del governo spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, molto attivo sulla questione della crisi del Paese caraibico. Si arriva così al 2019, quando, grazie ai buoni uffici della Norvegia, la mediazione ha avuto luogo a Barbados, con un risultato di nuovo fallimentare, dopo che Maduro ha abbandonato il tavolo del negoziato, a causa del sostegno espresso dalla opposizione venezuelana alle sanzioni decise dagli Stati Uniti.
Ultimo, in ordine di tempo, il negoziato a Città del Messico, partito all’inizio molto bene, tanto da generare un giustificato ottimismo per i progressi concreti che si erano realizzati, e per la serie di accordi tra il partito di governo e l’opposizione. Ma su di esso è sceso il gelo, dopo la vicenda dell’uomo di affari colombo-venezuelano, Alex Saab, ricercato e agli arresti a Washington, con le accuse di riciclaggio di denaro, da molti considerato il prestanome di Maduro, e che il governo venezuelano voleva fosse presente alla trattativa con lo status di diplomatico. Una vicenda abbastanza intricata, dato che in seguito si è saputo che Saab, l’imprenditore che “sfidava l’embargo degli Stati Uniti, per portare cibo e medicine al popolo venezuelano”, l’emblema della “persecuzione” della Casa Bianca contro il governo di Maduro, sarebbe stato, dal 2018 al 2019, collaboratore della Drug Enforcement Administration (Dea), l’agenzia antidroga degli Stati Uniti. Autore della rivelazione, Robert Scola, giudice di un tribunale della corte di Miami, presso cui Saab deve rispondere delle accuse di riciclaggio. Secondo quanto rivelato da Scola, l’imputato avrebbe passato alle agenzie statunitensi informazioni cruciali sulle tangenti incassate dai funzionari del governo “chavista”.
Nella foto: Gerardo Blyde e Jorque Rodríguez all’incontro di Parigi