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Il Recovery Plan e il paradosso del blocco borghese

L’insieme di forze economiche (e politiche) che controlla la vita sociale del Paese, concentrato soprattutto nelle regioni del nord, è il punto di riferimento principale nelle linee guida del Piano Draghi: un tradimento di quegli elettori che nel 2018 avevano inteso protestare contro un sistema sempre uguale a se stesso

11 Maggio 2021 Sandro De Toni  730

L’Italia vive un paradosso, quello di un blocco borghese sconfitto eppure vincente (come sostiene anche Stefano Palombarini in un recente libro). La stagione dei governi del blocco borghese, inaugurata dal governo tecnico di Monti, è durata fino al 2018 con i governi Letta, Renzi, fino a Gentiloni. Tutti questi leader sono stati politicamente sconfitti, in particolare alle elezioni politiche del 2018. Eppure il blocco borghese, minoritario nella società, tre anni dopo la sua sonora sconfitta nelle urne, è ritornato a guidare il Paese con il governo Draghi. Non si poteva certo cedere ad altri la gestione dei miliardi del Recovery Plan.

L’Unione europea, che ha sponsorizzato questa operazione, chiede ora il pieno rispetto delle puntuali raccomandazioni della Commissione all’Italia, quelle del 2020 e soprattutto del 2019. L’elenco è lo stesso della lettera di Trichet e Draghi (sempre lui) dell’estate 2011: controllo del deficit e avanzi primari, riduzione della spesa previdenziale, aumento dell’Iva e introduzione di una patrimoniale, liberalizzazione dei servizi pubblici locali, più peso ai contratti aziendali rispetto a quelli nazionali, “riforma” del mercato del lavoro, e così via. Si interroga Palombarini: nelle elezioni del 2018 “le classi sacrificate dalle riforme del blocco borghese avevano cercato una strada per esprimere la loro sofferenza e il loro scontento. E adesso?” Plaude, invece, l’organo dei liberisti italiani, Il Foglio, che saluta “il Recovery (come) capolavoro neoliberista”. D’altronde la parola “produttività” compare quarantanove volte nel Pnrr, e le parole “competizione” e “concorrenza” ricorrono 257 volte, mentre la parola “diseguaglianze” solo sette.

L’impostazione neoliberista riguarda innanzitutto la sua filosofia di fondo: il Piano è costruito intorno alla consueta visione degli interventi dal lato del potenziamento della competitività e dell’offerta, senza il necessario sostegno alla domanda aggregata. Anche solo valutandolo dal lato della supply-side economics, è troppo ristretto finanziariamente ed eccessivamente frantumato, frutto più di un ascolto delle lobby che di una logica d’insieme. L’unico obiettivo dichiarato è quello di far tornare il paese competitivo. Un ritorno al passato più che una visione dell’avvenire. In effetti, il Pnrr è molto frammentato: si tratta di 162 investimenti, di cui 107 sono sotto il miliardo di euro; la dimensione media dei progetti è di 1,3 miliardi, quella mediana di 650 milioni. Il Pnrr di Draghi, rispetto a quello di Conte, prevede quindici miliardi in più di spese per innovazione, trasporti, energia verde e istruzione. Queste maggiori spese per diciannove miliardi sono finanziate da meno risorse per l’efficientamento degli edifici pubblici (sette miliardi) e da un aumento complessivo della spesa per dodici miliardi. L’impressione generale che si ricava dalla sua lettura è che si intenda finanziare il sistema produttivo che c’è. Ossia, essenzialmente, quello ubicato a nord della penisola.

Cemento, idrogeno (grigio) o chip?

Sulla carta i trasferimenti alle imprese sono il 18,7%, che comprende Industria 4.0, i bandi per le tecnologie di punta, per la sostenibilità energetica, ecc., e i crediti per prodotti informatici e ottici (12,4%). Tra Pnrr e Fondo complementare, le imprese incassano circa cinquanta miliardi, ai quali si aggiungono i tredici previsti per le grandi opere ferroviarie.

Circa trentacinque miliardi sono trasferimenti alle imprese tramite sussidi. Il grosso proviene dalla voce “transizione 4.0” della Missione 1 (digitalizzazione): si tratta di quattordici miliardi spalmati dal 2021 al 2026 per crediti d’imposta a favore degli investimenti delle società in beni tecnologici. A ricevere di più, sono la banda ultralarga e l’industria spaziale, e in particolare la società Leonardosia per i fondi assegnati alla filiera dell’aerospazio sia per i progetti sulla gestione dei dati in sicurezza. Circa 1,29 miliardi di fondi europei copriranno una parte degli investimenti per i programmi SatCom, Osservazione della terra, Space Factory, In-Orbit Economy, Downstream.

Due righe assegnano 750 milioni “a sostegno di progetti industriali ad alto contenuto tecnologico, tra i quali ricade la produzione di semiconduttori”. Certo ci sarà una gara d’appalto, ma il ritratto è preciso: trattasi dell’italo-francese Stmicroelectronics che impianterà una fabbrica di microchip a Catania, dove peraltro è già presente. L’Eni incassa le risorse disponibili per gli impianti di stoccaggio di CO2 previsti in quel di Ravenna, un progetto dal costo di 1,35 miliardi. Il Piano Draghi investe molto di più sull’idrogeno (grigio) che sull’economia circolare. Una transizione ecologica a uso e consumo di Eni e Snam.

Per l’internalizzazione delle imprese si prevedono tredici miliardi per tutto l’arco temporale del Piano, di cui 1,2 miliardi per il fondo Simest. Il capitolo ricerca viene significativamente denominato “dalla ricerca all’impresa”, e prevede 12,44 miliardi di cui 5,5 miliardi a scopi pubblici e il resto destinato ad accordi, “ecosistemi dell’innovazione”, start up e industrie. Il criterio di fondo è la loro utilità applicativa, che spesso si traduce in ciò che interessa nell’immediato alle aziende. Una parte consistente dei sei miliardi previsti per le politiche attive del lavoro finiranno nelle tasche delle agenzie private di collocamento. Nel Piano c’è un forte investimento sugli istituti tecnici superiori, di 1,5 miliardi in cinque anni, un’istruzione terziaria professionalizzante legata al sistema produttivo e al mercato del lavoro.

Ma il blocco borghese ha ovviamente interessi compositi, che vedono qualche tensione tra costruttori e imprese orientate all’high tech. Molte risorse sono comunque dedicate al settore delle costruzioni. D’altronde questo serve a correggere almeno un po’ la politica dal lato della domanda, tenendo anche conto dell’effetto volano di queste spese. Il settore delle costruzioni è in una crisi profonda e conosce qualche difficoltà a riconvertirsi alla rigenerazione urbana. Le imprese di costruzione avevano, nel 2008, due milioni di dipendenti; nel 2018 il loro numero è sceso a 1,3 milioni, con il 58% degli investimenti persi in dieci anni.

Gli investimenti nelle costruzioni sono pari al 32,6% del Pnrr. Si finanziano in particolare le ferrovie (anche con le risorse del Fondo complementare), ma non certo quelle utili a milioni di pendolari. Si concentrano le risorse sull’alta velocità e l’alta capacità (per le merci). Con poi delle scelte discutibili sui singoli progetti, come quello relativo alla linea Salerno-Reggio Calabria, dove si è scelto un corridoio interno con 160 chilometri di gallerie e un costo complessivo previsto di trenta miliardi, mentre esistono possibili percorsi alternativi. Un’opera che sembra progettata più per le necessità di lavoro delle grandi imprese (vedi Webuild di Salini e Cdp) che per le esigenze di una mobilità sostenibile. Per i treni regionali si prevede l’acquisto di cinquantatré nuovi treni (il Piano Conte ne prevedeva ottanta), mentre abbiamo in circolazione 456 treni regionali di cui più della metà ancora funzionanti a diesel.

Si aggiunge, per completare il quadro, la rinnovata proposta del ponte sullo Stretto che probabilmente non darà vita a quest’opera, ma farà di nuovo partire una girandola di finanziamenti per studi di fattibilità, progetti, consulenze e contenziosi vari.

Da parte di molte forze politiche c’è stata, poi, una forte pressione a favore dell’ecobonus immobiliare al 110% con diversi stop and go, complici le perplessità della Ragioneria dello Stato sulle modalità della cessione del credito alle banche. Le risorse relative vengono comunque decurtate nel Pnrr di Draghi da 29,33 a 11,69 miliardi, mentre ne vengono recuperate solo 8,25 con il Fondo complementare (totale: – 9).

A Confindustria però non basta mai

Scrive Confindustria: “La nuova versione del Piano fa registrare un significativo passo avanti sulle riforme”. Ma non mancano le critiche: “Il Piano è carente su due temi centrali, ovvero la crescita dimensionale delle imprese e il riequilibrio della loro struttura finanziaria, appesantita, peraltro, dall’eccessivo indebitamento legato ai prestiti garantiti”. Sembra una vera e propria richiesta di azzerare (a spese del pubblico) i debiti delle aziende. I crediti deteriorati potrebbero, infatti, impennarsi se le imprese che hanno acceso 250 miliardi di prestiti con la garanzia statale saranno insolventi. Manca inoltre – secondo Confindustria – una strategia di medio e lungo periodo per il sostegno all’export.

Ma la partita più interessante per Via dell’Astronomia riguarda le riforme, e in particolare quelle della concorrenza e le semplificazioni. La legge annuale sulla concorrenza sarà presentata in parlamento entro il 15 giugno. È dal 2017 che non veniva presentata. La concorrenza, secondo il Piano, va introdotta soprattutto nei servizi pubblici locali. Serve “maggiore competitività per l’affidamento”, e va limitato il ricorso all’affidamento in house per le partecipate. Questo vale non solo per l’energia ma anche per i trasporti pubblici e l’acqua, nonostante il risultato del referendum del 2011.

Si punta alla liberalizzazione del mercato dell’energia che secondo l’Arera, l’autorità di settore, ha già penalizzato le famiglie con un aumento delle tariffe del 26%. Secondo Draghi, bisognerà superare “alcuni ostacoli regolatori al libero svolgimento di attività economiche”, in materia di servizi idroelettrici, distribuzione del gas, vendita di energia elettrica o di concessioni autostradali. Alle amministrazioni territoriali va imposta “una motivazione anticipata e rafforzata che dia conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato”.

Per quanto concerne la banda ultralarga, si auspica la piena concorrenza facendo tramontare l’ipotesi Tim come capofila di una società che doveva gestire una rete unica, e favorendo di fatto i concorrenti come, per esempio, la Vodafone, di cui peraltro il ministro Colao è stato il manager. In ogni caso per le reti a banda ultralarga fissa ci sono 3,9 miliardi, per quelle mobili (5G) 1,6 miliardi. Altri finanziamenti sono previsti per coprire le strade extraurbane.

La madre di tutte le semplificazioni concerne la Valutazione d’Impatto Ambientale (Via). Nel Piano si rileva come “le norme vigenti vedono procedure di durata troppo lunga che ostacolano la realizzazione di infrastrutture e di altri interventi sul territorio”. Si prevede, dunque, per le opere previste nel Pnrr e nel Fondo complementare una procedura speciale, una Via statale per velocizzare il procedimento affidata a una commissione speciale di quaranta membri. Per il resto si accorceranno i tempi del silenzio-assenso invece di aumentare il personale addetto. La fase di consultazione preliminare scenderà da sessanta a trenta giorni.

Le bozze del decreto legge sulle semplificazioni di cui si è a conoscenza prevedono, all’articolo 1, semplificazioni della Via improvvisate, incoerenti e non funzionali né alla trasparenza del processo decisionale né alla sua efficienza. Viceversa, non si tagliano i tempi inutili concessi al proponente, per esempio, con la duplicazione dei tempi disponibili per la definizione dell’elaborazione dei dettagli progettuali. Come messo in luce da Stefano Lenzi su Sbilanciamoci, viene riproposta ancora una volta la leggenda metropolitana dei tempi lunghi delle valutazioni ambientali, mentre i veri ritardi nella realizzazione delle opere sono nei processi amministrativi a monte e a valle della Via e nei contenziosi tra amministrazioni e aziende.

Un’altra riforma prevista concerne i controlli pubblici di attività private. Si vogliono ridurre le “duplicazioni e le interferenze tra le diverse tipologie di ispezioni”. Nel mentre aumentano gli incidenti sul lavoro, non sono certo propositi di buon auspicio per la sicurezza dei lavoratori.

L’altro asse concerne gli appalti. Si prorogano fino a tutto l’anno 2023 le norme già previste dal Decreto legge n.76/2020, che sarebbero scadute a fine 2021, tra le quali la limitazione della responsabilità per danno erariale per i dirigenti e i funzionari dell’amministrazione pubblica. Si annuncia una legge delega per la riforma complessiva del codice degli appalti che andrebbe a incidere non solo sulle gare, ma anche sul tema ultrasensibile delle concessioni (per esempio quelle autostradali). Tutto ciò mentre, nell’ultima versione del Piano, è saltato il riferimento al salario minimo legale. Il sigillo finale.

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