L’Italia non si distingue certo per la sua politica dei diritti umani. È il decimo esportatore di armi nel mondo; fa accordi con le bande armate che in Libia catturano e torturano i migranti (e Draghi di recente, con involontario sarcasmo, è arrivato a elogiare i “salvataggi in mare” della guardia costiera libica); all’Onu vota contro una risoluzione che intendeva denunciare il concetto di “embargo”, un modo per fingere di sanzionare i potenti colpendo gravemente le popolazioni… Però, a essere sinceri, non un solo Paese al mondo può dirsi del tutto esente da critiche sotto il profilo dei diritti umani; mentre una politica incentrata su questi non potrebbe che avere un carattere internazionale.
Se il mondo fosse diverso, di diritti umani non ci sarebbe neppure bisogno di parlare: sarebbe semplicemente scontato che le controversie non si risolvono con le guerre, che la vita e la dignità delle persone vanno sempre rispettate, che i migranti sono nel loro pieno diritto quando si spostano da una zona del globo a un’altra, e così via. Tutto ciò rientra nel progetto illuministico di una “pace perpetua”. Un obiettivo perseguibile – come ben sapeva Kant – solo all’interno di una confederazione mondiale di Stati basata sul diritto internazionale: oggi, in sostanza, rendendo operante nella realtà ciò che l’Onu esprime unicamente in linea di principio. Negli anni passati, invece, si è assistito perfino a una strumentalizzazione, da parte dei Paesi occidentali, del diritto internazionale: con la dubbia nozione di “ingerenza umanitaria”, si è data una verniciatura ideologica a vere e proprie guerre di aggressione.
Ma l’utopia di un mondo unificato dal diritto non smette di interrogare le nostre coscienze, con tutto quanto ne consegue. In una situazione in cui si assiste da tempo al declino dello spirito utopico, l’idea di un diritto internazionale non basato sulla politica di potenza è quella in cui si è ritirata la stessa prospettiva della possibilità e necessità di una profonda trasformazione della società in cui viviamo. In altre parole, il discorso intorno alla centralità dei diritti umani è preliminare rispetto alla messa in questione dell’attuale forma di vita nel suo insieme. Senza l’affermazione dei diritti umani, un nuovo socialismo sarebbe impossibile; ma senza un’apertura socialista la loro affermazione resterebbe puramente retorica.
All’interno dello iato tra la precedenza da conferire ai diritti umani e il suo pur indispensabile corollario socialista, ci sarebbe tutta una serie di atteggiamenti internazionali da assumere – da parte di ciascun singolo Paese, ma soprattutto da parte di entità statali sovranazionali come l’Unione europea – per contemperare (ecco la parola) tensione utopica e realismo politico. Perché invece, questo è il punto, non si contempera un bel niente! E si lascia soltanto alla solita, estenuata Realpolitik tutto il campo d’azione.
Prendiamo il caso del ragazzo italiano sequestrato, torturato e ucciso in Egitto dagli sgherri di un regime molto simile, in materia di diritti umani, a quello di Pinochet in Cile negli anni Settanta. Sappiamo perfettamente che la repressione del dissenso e la violenza di Stato sono moneta corrente in quel Paese, e che, per un nostro concittadino martoriato, ce ne sono altri mille torturati allo stesso modo. Porre la questione di una rottura delle relazioni diplomatiche tra l’Italia e l’Egitto è improponibile, dal punto di vista del realismo politico, e sarebbe molto probabilmente improduttivo sul piano della difesa dei diritti umani. La via da seguire, piuttosto, sarebbe quella di un coinvolgimento dell’Europa in una politica di sanzioni mirate nei confronti dei dirigenti egiziani. Toccati nei loro interessi e nei loro patrimoni, spesso trasferiti all’estero, questi dirigenti sarebbero messi in seria difficoltà. Sappiamo, inoltre, che in Egitto le forze armate (di cui il regime è espressione) sono anche la principale impresa economica. Come si può, dunque, da parte dell’Italia e dell’Europa, non imporre uno stop ai rifornimenti di armi e attrezzature militari a quel Paese?
Ci troviamo, al contrario, nella paradossale situazione in cui l’uomo forte del regime, al-Sisi, viene insignito da Macron della Legion d’onore, massima onorificenza dello Stato francese. Non sarebbe stato il caso di protestare in modo formale, da parte dell’Italia, contro un’iniziativa del genere? Oppure si dovrebbe attendere la realizzazione dell’altra utopia oggi sul tappeto, cioè quella di una crescente integrazione europea in senso federalistico, affinché possa iniziare a prendere corpo una politica internazionale dei diritti umani?