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Il Sudan ritorna al mondo di ieri

Che cosa è successo in Sudan? Quel che avevano detto i gruppi di attivisti e sindacati impegnati nella rivoluzione che voleva costruire la democrazia a tappe a Khartum: “C’è aria di golpe, ma un ritorno al passato sarà impossibile”. La troika che ancora decide i destini del Sudan – Arabia Saudita, Egitto ed Emirati arabi uniti – deve aver ritenuto che l’aria di golpe era autentica, visto che a progettarlo erano loro stessi, ma sull’impossibilità del ritorno al passato ci si sarebbe chiariti col tempo. D’altronde uno scenario analogo è stato impostato in Tunisia, con il “colpo di mano” del presidente Saïd. I grandi sommovimenti del 2011 e del 2019 sono alle spalle; e appunto i loro simboli vincenti – cioè Tunisia e Sudan – dovevano diventare i simboli evidenti di un ritorno al mondo di ieri.

I tempi probabilmente erano maturi anche per motivi interni al Sudan: c’era infatti l’ipotesi di un passaggio, di qui a un mese, della guida del governo a un esponente non più dei militari ma dei civili. Un fatto storico per un Paese governato ormai da decenni dai militari. Ma questo non basta a capire. Il grande riassetto è regionale, e non parte solo da questi due golpe, passa anche dalla prospettata riammissione di Bashar al-Assad nella Lega araba e dall’individuazione di un punto di “compromesso” in Iraq. È il supposto “processo di pace” tra sauditi e iraniani, che vorrebbe arrivare a dare almeno una degna sepoltura ai non molti yemeniti rimasti in vita.

Al-Sisi: siamo tutti per il modello cinese

"Approccio dittatoriale". Sono le accurate parole che il presidente egiziano al-Sisi ha scelto per definire la visione di quei Paesi che gli chiedono di...

Zaki, non soltanto lui

Patrick Zaki punta l’indice contro il regime egiziano. Motivo: le discriminazioni contro il suo gruppo religioso, i copti di fede cristiana, originari proprio dell’Egitto....

Per una politica internazionale dei diritti umani

L’Italia non si distingue certo per la sua politica dei diritti umani. È il decimo esportatore di armi nel mondo; fa accordi con le bande armate che in Libia catturano e torturano i migranti (e Draghi di recente, con involontario sarcasmo, è arrivato a elogiare i “salvataggi in mare” della guardia costiera libica); all’Onu vota contro una risoluzione che intendeva denunciare il concetto di “embargo”, un modo per fingere di sanzionare i potenti colpendo gravemente le popolazioni… Però, a essere sinceri, non un solo paese al mondo può dirsi del tutto esente da critiche sotto il profilo dei diritti umani; mentre una politica incentrata su questi non potrebbe che avere un carattere internazionale.

Se il mondo fosse diverso, di diritti umani non ci sarebbe neppure il bisogno di parlare: sarebbe semplicemente scontato che le controversie non si risolvono con le guerre, che la vita e la dignità delle persone vanno sempre rispettate, che i migranti sono nel loro pieno diritto quando si spostano da una zona del globo a un’altra, e così via. Tutto ciò rientra nel progetto illuministico di una “pace perpetua”. Un obiettivo perseguibile – come ben sapeva Kant – solo all’interno di una confederazione mondiale di Stati basata sul diritto internazionale: oggi, in sostanza, rendendo operante nella realtà ciò che l’Onu esprime unicamente in linea di principio. Negli anni passati, invece, si è assistito perfino a una strumentalizzazione, da parte dei paesi occidentali, del diritto internazionale: con la dubbia nozione di “ingerenza umanitaria”, si è data una verniciatura ideologica a vere e proprie guerre di aggressione.

Egitto, quella “rivoluzione introvabile” del ventunesimo secolo

Dieci anni fa, l’11 febbraio 2011, cadeva Hosni Mubarak nel clima impropriamente detto – a voler considerare i drammatici e sanguinosi sviluppi successivi –...