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Una visione termodinamica della vita, ovvero piccola storia dell’entropia

Qualsiasi attività comporta degli scarti non più utilizzabili, cioè perdita irreversibile e inquinamento, indicando così la necessità di gestire con estrema attenzione le risorse in quanto esse sono limitate

18 Marzo 2021 Giuseppe Grazzini  1796

La termodinamica è un ramo delle scienze che deriva dallo studio delle macchine che hanno dato vita alla rivoluzione industriale. La realizzazione delle prime macchine a vapore nel Settecento aveva spinto a studiarle per cercare di migliorarne il funzionamento; era importante capire quanto lavoro, o movimento, si potesse ottenere da una fonte di calore. Nel 1824 fu pubblicato il libro Réflexions sur la puissance motrice du feu da parte di Nicolas Léonard Sadi Carnot che con questo testo, a ventotto anni, fondò la termodinamica, enunciando quello che poi è stato considerato il secondo principio della termodinamica. Egli espresse il legame tra il lavoro ottenibile e il calore prelevato da una sorgente per una macchina ideale, mostrando come fosse necessario avere due sistemi con cui scambiare calore, a temperatura differente. A parità di calore prelevato dal lato caldo, dove la temperatura è maggiore, mostrò che si ottiene tanto più lavoro quanto più grande è la differenza di temperatura esistente tra i due sistemi, dovendo comunque cedere calore al sistema più freddo, con la conseguenza che non tutto il calore prelevato è trasformabile in lavoro.

Come accade in tutte le scienze, si tratta di una elaborazione concettuale di esperienze reali, dato che con Einstein possiamo affermare che: “I concetti fisici sono creazioni libere dell’intelletto umano e non vengono, come potrebbe credersi, determinati esclusivamente dal mondo esterno”. Curiosamente, il secondo principio della termodinamica è stato espresso compiutamente prima che lo fosse il primo principio; quest’ultimo è enunciato come conservazione dell’energia e la sua storia è molto più lunga, facendo riferimento a tutti gli studi sul moto dei corpi, che nella nostra cultura scientifica nascono con gli esperimenti di Galileo sulla caduta dei gravi e sui piani inclinati. Tuttavia solo dopo gli esperimenti di James Prescott Joule, negli anni Quaranta del XIX secolo, relativi all’equivalenza tra lavoro e calore, Rudolf Julius Emanuel Clausius nel 1850 lo enunciò, per esplicitare poi, nel 1862 il secondo principio introducendo l’idea di processi irreversibili insieme con il termine entropia.

Parliamo quindi di energia quando abbiamo la possibilità di ottenere calore e/o lavoro da un certo processo; l’entropia ci permette invece di calcolare l’entità del cambiamento avvenuto a causa del processo stesso.

Carnot aveva considerato la possibilità di macchine ideali perfette, che potessero prelevare e cedere calore dai sistemi con cui interagivano alla stessa loro temperatura; nella realtà esse non esistono, ogni moto deve vincere degli attriti, il calore si trasferisce solo da un corpo più caldo a uno più freddo, richiedendo una differenza di temperatura. Il contrario non succede. La trasformazione ha una sola direzione di sviluppo, non può andare in senso opposto, è irreversibile.

È importante considerare che cosa si esprima con il termine “principio”; esso indica un punto di partenza indimostrato, generalizzazione di tante esperienze, tuttavia mai contraddetto o violato.

Da un punto di vista pratico, infatti, il primo e il secondo principio della termodinamica negano la possibilità del moto perpetuo, comunque lo si voglia ottenere. Come dicono gli economisti, non ci sono pasti gratuiti, per qualsiasi risultato che consideriamo positivo occorre pagare un prezzo. Il secondo principio ci dice quale sia questo prezzo, introducendo l’irreversibilità presente in ogni processo: irreversibilità che comporta sempre una qualche traccia nell’ambiente circostante, misurabile con la variazione dell’entropia, ovverosia ciò che oggi chiamiamo correntemente inquinamento.

Come già aveva intuito Leonardo, non esiste un moto senza attrito, quindi non esiste un moto perpetuo legato a soli sistemi cinematici: l’energia per vincere gli attriti deve essere prelevata da qualche parte. A metà del Seicento l’Accademia reale di Francia aveva dichiarato che non avrebbe più considerato proposte di invenzioni legate al moto perpetuo, invitando gli inventori, all’epoca essenzialmente nobili studiosi di “filosofia naturale”, a non sperperare le loro ricchezze in questa ricerca. Rimaneva sempre l’idea che si potesse ottenere infinito lavoro ricavandolo, per esempio, dal mare con una macchina che sfruttasse il calore dell’acqua; ma lo studio di Carnot mostrò la sua impossibilità, perché sarebbe servito un sistema a temperatura inferiore cui cedere calore. Mentre è possibile trasformare tutto il lavoro in calore, non è possibile il contrario.  

Questa irreversibilità, inoltre, dà una direzione precisa all’evoluzione dei sistemi, introduce quella che è stata chiamata la freccia del tempo. Ogni processo fisico o chimico procede nel senso di ridurre le differenze e quindi le possibilità di ottenere lavoro o calore, due modi di scambiare energia. I corpi caldi si raffreddano cedendo calore all’ambiente circostante; questa idea provocò alla fine dell’Ottocento molte polemiche sulla morte termica dell’universo, raggiunta quando tutte le differenze di temperatura fossero scomparse. Sarebbe comunque una condizione ben lontana dal momento attuale e legata a una visione parziale, locale dell’universo. A oggi, nessun processo identificato nell’universo viola il secondo principio.

La concezione molecolare e atomica dei sistemi ha contribuito a interpretare fisicamente il principio introducendo una concezione statistico-probabilistica delle interazioni tra le particelle costituenti. Clausius contribuì al passaggio dall’idea che il calore fosse un fluido che si trasferiva da un corpo a un altro, il cosiddetto calorico, sviluppando l’idea che il calore derivasse dalla meccanica del moto delle particelle nei gas, e il completamento dell’analisi fu compiuto da Ludwig Boltzmann che, nel 1877, introdusse statistica e probabilità nell’analisi dei gas andando così a calcolare l’entropia delle varie condizioni in cui si possono trovare. Aprì così la strada agli studi che portarono alle teorie quantistiche che permisero a Max Planck, nel Novecento, di analizzare la distribuzione delle lunghezze d’onda della luce formulando una relazione che concordava con i dati sperimentali.

Questa concezione atomistica e meccanicistica fu accettata con difficoltà dal mondo scientifico tanto che le polemiche contribuirono ad accentuare la depressione di cui soffriva Boltzmann, portandolo al suicidio nel 1906.

Riprendendo quanto scritto su che cosa è la scienza e quanto espresso da Einstein, dobbiamo essere coscienti che le scienze non sono la verità, ma presentano quadri interpretativi e predittivi, in senso probabilistico, di fenomeni reali. Potremmo anche affermare che le scienze non spiegano il perché dei fenomeni, ma solo come avvengono, e in accordo con Dante potremmo accontentarci del “quia” (verso 37, III canto del Purgatorio). Per dirla con Boltzmann, “non può essere nostro compito trovare una teoria assolutamente corretta, mentre lo è quello di trovare un’immagine il più possibile semplice che rappresenti i fenomeni nel modo migliore possibile […]. L’affermazione per cui una teoria sarebbe l’unica giusta può essere solo l’espressione della nostra convinzione soggettiva, secondo cui non può esistere nessun’altra immagine ugualmente semplice e altrettanto ‘adeguata’ a interpretare i fatti reali [2]. D’altra parte è sempre possibile che si costruiscano nuove teorie […], lo sviluppo della fisica teorica è stato sempre per salti […]. Un tempo si era soliti dire che la vecchia descrizione era stata riconosciuta falsa. Questo suona come se le nuove idee fossero assolutamente vere e, d’altra parte, le vecchie (essendo false) fossero completamente inutili. Oggi, per evitare ogni confusione a questo riguardo, si dice semplicemente: il nuovo modo di pensare è una descrizione migliore, più completa e adeguata dei fatti”.

Non possediamo la verità, tuttavia il secondo principio, affermando che possiamo ottenere energia solo in presenza di differenze di grandezze fisiche e che ogni nostra attività comporta degli scarti non più utilizzabili, cioè inquinamento, indica la necessità di gestire con estrema attenzione le risorse (differenze) che possiamo utilizzare, prendendo atto che esse sono limitate. Senza disponibilità di energia ottenibile sotto varie condizioni, con differenze di temperatura, composizione chimica o loro quota, niente cibo, acqua, trasporti.

Ma le differenze danno anche la possibilità di distinguere le cose, i fatti, le persone. Distinguere permette di riconoscere, di costruire informazione; non per caso con la teoria dell’informazione, sviluppata nell’analizzare le reti telefoniche, nel 1948 Claude Shannon introdusse una forma di entropia calcolabile con una relazione analoga a quella di Boltzmann.

È importante riflettere sulle conseguenze dell’idea di irreversibilità delle trasformazioni reali. Spesso i modelli scientifici semplificano molto i sistemi; anche Carnot, come detto, aveva considerato macchine ideali. Le situazioni ideali hanno quasi sempre un’unica soluzione.

Nella realtà la presenza di “imperfezioni” fa sì che ci siano sempre scarti, perdite che in termini di entropia comportano che essa cresca sempre per l’insieme dei sistemi; di qui la freccia del tempo, vale a dire la circostanza che una trasformazione irreversibile non può tornare indietro. Forse, conoscendo e controllando tutte le particelle che compongono un corpo, non concepiremmo neppure il tempo. Per usare le parole di Carlo Rovelli, “il tempo appare solo in questo contesto statistico, termodinamico, cioè il tempo è un effetto della nostra ignoranza dei dettagli del mondo. Se avessimo conoscenza completa di tutti i dettagli del mondo, non avremmo la sensazione dello scorrere del tempo”. L’esempio classico è quello del bicchiere che si rompe e va in mille pezzi; nessuno ha mai visto i mille pezzi rimettersi insieme a ricostruire il bicchiere, se non in un film fatto girare a ritroso.

Poiché il tempo non è altro che la nostra personale percezione dell’evoluzione dei fenomeni (giorno-notte, fasi lunari, orologi, battito cardiaco), essendo questi irreversibili, non si può tornare indietro, e quindi i viaggi nel tempo non sono possibili. Il viaggio nel futuro lo compiamo ogni giorno invecchiando, ma nessuno ringiovanisce!

I sistemi viventi sono capaci di utilizzare le differenze presenti nel mondo per organizzarsi e costruirsi, differenziandosi sempre più dall’ambiente circostante, ma producendo pur sempre scarti. L’entropia totale aumenta mentre si riduce quella del sistema che vive, come già evidenziò il fisico e premio Nobel Erwin Schrödinger nel 1944. Senza le differenze dovute al sole (o al pianeta, nei fondali marini), la vita non sarebbe possibile, e d’altra parte il fatto che i processi siano irreversibili permette di trovare tante diverse strategie per le forme viventi e quindi di realizzare la miriade di esseri diversi che ci circondano e di cui facciamo parte. La vita è un continuo costruire strutture organizzate ma transitorie fino a che l’organismo riesce ad attingere a risorse esterne e a rigenerarsi, altrimenti muore. L’ultima delle irreversibilità. È forse quest’ultima conseguenza che rende così difficile l’accettazione del secondo principio e la sua generalizzazione filosofica.

(Testo della relazione presentata il 4 febbraio scorso nell’ambito dei seminari online su “Il disordine del capitalismo e la via verso un nuovo modello di sviluppo”, a cura della Fondazione per la critica sociale, Legambiente e Crs Toscana.)

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