Ci sono tre cose che andrebbero insegnate già a partire dai primi anni della formazione scolastica. La prima: la biosfera, il luogo singolare e unico in cui è nata la vita, è un prodotto del Sole, così come i cicli biogeochimici, le maree, i venti, tutti prodotti dal Sole. E noi stessi, come evoluzione di forme di vita, siamo stati generati dalla stessa causa. Forse non erano infondate le credenze degli antichi che affermavano che “siamo figli del Sole”.
La seconda: tutto in questo pianeta è interconnesso. Il mondo non è un grande orologio meccanico come sostenevano gli scienziati deterministi del Seicento. Recidere le connessioni sembra invece l’ideologia dominante nelle nostre scuole, l’osservazione distaccata dei fenomeni che non comporta alcuna partecipazione emotiva, lo sguardo freddo dello scienziato per poi imparare, acquisire nozioni da quegli insegnanti che trasformano la meravigliosa avventura del sapere in aride conoscenze. L’intuizione è sbagliata, l’inconscio, il sogno sono banditi come estranei a una visione scientifica, tanto quanto l’emozione che è la sorgente della scoperta. L’inesistenza del limite, che dovrebbe invece guidare le nostre azioni. Ciò che manca, nell’insegnamento, è lo studio delle connessioni, “di quel più ampio sapere che tiene insieme le stelle e gli anemoni di mare, le foreste di sequoie e le commissioni e i consigli umani”, come affermava Gregory Bateson.
La terza: l’insegnamento della seconda legge della termodinamica, ovvero del principio dell’entropia. L’entropia non è soltanto una legge che riguarda i sistemi fisici, essa regola i sistemi viventi, la vita. Essa misura la qualità dell’energia; minore è l’entropia, maggiore la qualità. Quindi ogni volta che trasformiamo energia, per esempio nel passaggio da quella elettrica a quella termica, l’entropia aumenta. L’entropia aumenta sempre (salvo il caso dei sistemi isolati), ovvero nei sistemi chiusi, quale la biosfera, l’entropia non può che aumentare. Il nostro è un mondo finito, finite sono le sue risorse e, dunque, finiti, sono i processi di trasformazione dell’energia che abitualmente possiamo compiere. L’unica energia illimitata è quella proveniente dal Sole: una centrale nucleare a fusione che non emette radiazioni, che ha consentito la nascita e lo sviluppo della vita sulla Terra e che continuerà a funzionare per altri milioni di anni.
Se gli studenti (e magari anche i loro genitori) conoscessero questi semplici principi elementari, da adulti sarebbero in grado di “sapere” quale strada percorrere per ristabilire un buon rapporto con la natura. E sarebbero in grado di distinguere quelle false innovazioni passate per sostenibili, che invece costituiscono solo delle soluzioni provvisorie e parziali.
Così siamo arrivati all’oggetto di questo articolo, ovvero al nostro giudizio sull’auto elettrica. Attualmente il nostro sistema di mobilità è basato sul motore a scoppio, un’invenzione che risale a molti anni fa. Tale motore è alimentato da energie fossili, e pertanto produce tassi elevati di CO2. Federico Butera afferma: “Un’auto elettrica (come del resto quella a idrogeno) non è necessariamente a emissioni zero; per esserlo deve essere ricaricata con energia elettrica proveniente da fonti rinnovabili, sennò le emissioni sono semplicemente delocalizzate, dalla città al luogo in cui c’è la centrale elettrica che fornisce la carica; dunque c’è da immaginare che si dia per scontato un colossale incremento della potenza fotovoltaica ed eolica installata, specificamente destinato alla mobilità” (F. M. Butera, Case e trasporti, così le città cambiano il clima, “il manifesto” del 7.1.2021).
C’è poi un altro grande impedimento allo sviluppo dell’auto elettrica: la produzione e lo smaltimento delle batterie. Questo comporterà grandi parchi (mega-factory, in Italia già in costruzione) di produzione di batterie che utilizzano materiali rari e preziosi (litio, manganese) reperibili solo in alcuni territori. Nella valle del fiume Jadar, solo per fare un esempio, nella Serbia nord-occidentale al confine con la Bosnia-Erzegovina, sono custodite le più grandi riserve di litio in Europa e tra le più grandi al mondo. Il litio è un elemento essenziale nella produzione di batterie per le auto elettriche. E proprio qui, a Loznica, sono esplose, nel gennaio scorso, grandi proteste contro il progetto di sfruttamento.
Altri devastanti progetti riguardano il prelievo dai fondali dell’oceano di questi minerali che, come ogni altro minerale, non sono rinnovabili. Con queste premesse la transizione all’elettrico rappresenterebbe però solo una fase di passaggio verso i motori alimentati da idrogeno (quello verde, si spera, altrimenti si ritorna al punto di partenza) che, secondo stime aggiornate, nel 2035 rappresenterebbero solo l’1% della produzione.
Ma la domanda fondamentale per la realizzazione di una vera transizione ecologica è: abbiamo ancora bisogno delle auto private? Negli anni Sessanta del secolo scorso, la diffusione dell’auto privata era vissuta come sinonimo di libertà, con essa potevi raggiungere luoghi fino ad allora impraticabili e sconosciuti. Da allora le cose sono completamente cambiate.
Le nostre strade, i marciapiedi sono invasi da milioni di auto generalmente immobili. Sono molto costose in termini di pagamento del bollo, assicurazione e ammortamento, e a poco servono per i trasferimenti in città dove si potrebbe ricorrere a tecnologie più pratiche (car sharing), consentendo notevoli risparmi in termini di costi e soprattutto di riduzione della CO2 prodotta. Infatti, alcuni studi e ricerche dimostrano che l’auto privata come unico mezzo di mobilità è ormai insostenibile:
“La mobilità del futuro sarà a emissioni zero, ma soprattutto sarà meno auto-centrica, cioè sempre meno basata sull’automobile che sarà sempre meno un oggetto di proprietà e sempre più un servizio condiviso” – dice Andrea Poggio, responsabile mobilità sostenibile di Legambiente –, “in Italia le automobili le usiamo poco e male, rimangono inutilizzate per il 95% del tempo, e questa è una distorsione provocata dalla politica della mobilità: la proprietà dell’auto costa poco, ma costa moltissimo muoversi. Con il risultato che gli italiani, pur avendo una marea di automobili, si muovono relativamente poco. Mentre la mobilità è un valore”.
Ancora: “L’Osservatorio per la sharing mobility (mobilità condivisa), istituito dai ministeri dei Trasporti e dell’Ambiente con la Fondazione per lo sviluppo sostenibile, nei suoi scenari, prevede che, senza una robusta percentuale di mobilità condivisa, guidare auto elettriche di per sé non sarà sufficiente a ridurre le emissioni in linea con l’Accordo di Parigi” (D. Passeri, Auto, sorpasso a tutta elettricità. E in città si respira di più, “il manifesto” del 10.3.2021).
Il problema in realtà sono gli spostamenti urbani, per lavoro, per shopping. Data la grande estensione delle nostre città (Roma, in particolare), questi spostamenti rappresentano una quota rilevante della mobilità privata. Quindi, afferma Butera, nell’articolo già citato: “Se questi luoghi fossero invece vicini, tanto da essere raggiungibili a piedi in pochi minuti, l’auto non sarebbe più necessaria, se non in particolari circostanze. Di conseguenza il problema va ribaltato: non sempre più auto, sia pure sempre più efficienti e meno inquinanti, ma riorganizzazione del tessuto delle funzioni urbane in modo che i luoghi da raggiungere più di frequente, diciamo ogni giorno, siano a non più di 5-10 minuti (a piedi o in bicicletta) e quelli in cui si va meno frequentemente (due-tre volte la settimana) a non più di dieci-quindici minuti […]. Se un quartiere è attrezzato in questo modo, l’auto non serve più, e quando serve conviene utilizzare il car sharing – naturalmente con auto elettriche che in Italia, grazie alla quota di rinnovabili nel sistema elettrico, emettono certamente meno di quelle a benzina o diesel – o, in prospettiva, il robotaxi, cioè il taxi a guida autonoma. Complessivamente il numero di autovetture occorrenti si ridurrebbe enormemente, il che comporterebbe anche una riduzione delle emissioni derivanti dalla loro fabbricazione, le cosiddette emissioni incorporate, oltre a quelle derivanti dal funzionamento”. Esperienze di questo tipo sono in corso in alcune città europee, come quella della sindaca di Parigi Anne Hidalgo: la “città dei quindici minuti”, dove tutti i negozi e gli uffici che ogni giorno frequentiamo sono a una distanza da casa accessibile (vedi in proposito anche l’articolo di Alessandra Criconia su “terzogiornale”).
Ma il ministro Cingolani, pur affermando che l’auto elettrica non è la soluzione finale, chiede però all’Europa di far slittare la data, fissata nel 2035, di circolazione delle auto con motore a combustione interna, al 2040, spinto dalla pressione delle case automobilistiche, che sono del tutto impreparate a questa trasformazione. Perché? Cingolani è un ministro esperto di questioni ambientali. Certamente a lui non sfuggono i gravi problemi connessi al riscaldamento climatico – e allora perché questo suo atteggiamento che contraddice la sua preparazione di fisico?
Una spiegazione ce la dà un suo collega fisico, Angelo Tartaglia (Per una vera transizione ecologica bisogna cambiare strada (e ministro), in “Volere la luna” del 24.06.2022): “Vi sono però dei casi in cui, in maniera organica e fin dal principio, la competenza è strumentale rispetto al fine primario della ‘carriera’: sapere non vale di per sé, ma serve per scalare le gerarchie professionali e sociali. A occhio direi che questo è il caso di Cingolani: la sua storia è una successione di salite verso livelli dirigenziali via via più elevati di vari enti scientifici a volte neocostituiti, per poi passare al mondo dell’industria, ivi incluso il settore militare, nel caso di Leonardo. Va da sé che per lui l’economia su cui ha puntato per il conseguimento di posizioni di vertice debba essere indiscutibile e certo non intende cooperare a metterne in discussione i meccanismi fondamentali, con buona pace delle considerazioni scientifiche relative a ciò che è o non è sostenibile. Di qui una certa simpatia per il nucleare, tatticamente rigirata nel senso dell’importanza di promuovere la ricerca del settore; di qui la promozione dell’idrogeno, che sta molto a cuore dei grandi gruppi che si occupano oggi di fonti fossili e che vorrebbero transitare verso qualcosa che di quelle fonti continui a valersi o che comunque richiede impianti molto simili, come taglia e complessità, a quelli in uso. Di qui la scarsa sostanziale promozione, in termini di investimenti, delle cosiddette ‘rinnovabili’. I fondi pubblici, nazionali ed europei, così come le agevolazioni, sono prevalentemente orientati verso i grandi operatori con posizioni importanti e spesso dominanti sul mercato dell’energia; certamente non verso la promozione dell’autoproduzione diffusa da parte di piccoli operatori o addirittura diretti consumatori/produttori: questi bisogna nella retorica promuoverli, ma nella sostanza evitare che possano disturbare il divin mercato”.
Dunque la competenza specifica non basta se si è al servizio dell’ideologia dominante, che è poi ancora quella sviluppista del secolo scorso.