Non è un segreto che gli oppositori alla riduzione dell’orario di lavoro si trovino non soltanto tra i conservatori. Essi si annidano infatti numerosi anche tra le file della cosiddetta sinistra: dirigenti sindacali nazionali che lanciano strali contro la prospettiva di ridurre l’orario per legge, definendola una “mostruosità”; leader politici che tergiversano, riproponendo da anni provvedimenti “sui tempi” di pura facciata, solo per coprire la loro totale inconsistenza; lavoratori, anche sindacalizzati, che non riescono neppure a concepire un accorciamento del loro tempo di lavoro. Si tratta di realtà con le quali abbiamo a che fare tutti i giorni. Di ciò non basta però rammaricarsi; e ancor meno basta ricorrere alla semplice operazione di collocarli tra i “nemici”. Piuttosto è indispensabile cercare di comprendere che cosa impedisca loro di percepire la necessità della riduzione dell’orario di lavoro, una riduzione finalizzata a consentire a ciascuno e a tutti di partecipare al processo produttivo e di godere di un tempo libero scaturito dallo straordinario progresso tecnico intervenuto negli ultimi due secoli. Un tempo per lo sviluppo che ora va assurdamente sprecato, appunto perché si presenta nella forma contraddittoria della disoccupazione di massa.
Un limite da superare
In genere rinunciamo a questo tentativo di comprendere, per una ragione molto semplice. Quasi mai ci troviamo davanti a errori elementari, che possono essere sottolineati direttamente. Quasi sempre incappiamo invece in un insieme di fraintendimenti o di travisamenti di singoli aspetti della realtà sociale, che potrebbero essere efficacemente confutati solo con una critica che li raccolga coerentemente insieme. Per svolgere questa critica dovremmo cioè essere capaci di cogliere il modo di percepire la realtà sociale che si annida in quei travisamenti e che giustifica il rifiuto. Ma questo è uno dei passaggi che la maggior parte dei sostenitori della proposta di riduzione dell’orario compie solo raramente e con grande difficoltà. Per questo finisce col semplificarsi il compito, giungendo alla conclusione che gli avversari non voglionocapire, cosicché la loro opposizione non sarebbe l’espressione di ciò che essi, come individui, sperimentano, quanto piuttosto l’espressione di una scelta di comodo o di una malafede.
Che cos’è che produce questo strano modo di procedere? Si tratta del fatto che la proposta della riduzione dell’orario di lavoro ha sin qui preso corpo soprattutto in forma pragmatica, e cioè sulla base di un modo di pensare che ignora quello che da Marx è stato definito come il problema delle forme. Essa si colloca pertanto all’interno di un orizzonte culturale indeterminato e indefinito, facendosi portatrice di una prospettiva sociale oscura a se stessa. Accade addirittura che molti di coloro che sostengono la proposta della riduzione d’orario condividano numerose convinzioni, relative alla dinamica sociale in atto, di coloro che la avversano. Convinzioni che dovrebbero in realtà spingere a negare una qualsiasi validità a questa proposta, e che dunque la contraddicono praticamente.
Cercherò di spiegarmi con un esempio. Molti sono convinti che, nei paesi economicamente avanzati, sia possibile realizzare un nuovo sviluppo procedendo alla creazione su scala allargata di altro lavoro salariato, cioè battendo le vie battute negli ultimi due secoli, con l’accumulazione capitalistica prima e il welfare keynesiano dopo. La debolezza di questa posizione è evidente. Se fosse veramente possibile realizzare uno sviluppo attraverso la creazione di nuovo lavoro, ci si dovrebbe ovviamente adoperare a perseguire prioritariamente questo obiettivo. E dunque avrebbero ragione coloro che dicono: prima realizziamo lo sviluppo, creando occupazione aggiuntiva, poi eventualmente procediamo a ridurre l’orario, se quello sviluppo ce lo consente. E avrebbero anche ragione ad aggiungere, come fece lo stesso Keynes nella Teoria generale del 1936, che un’inversione potrebbe compromettere lo stesso sviluppo, cosicché il perseguimento diretto della riduzione dell’orario potrebbe finire col rendere impossibile proprio il perseguimento di quell’obiettivo.
Per sostenere coerentemente la proposta della riduzione dell’orario bisogna dunque dimostrare, o almeno sapere, che corrisponde all’attuazione di una forma di sviluppo alternativa che, dal canto suo, è l’unica possibile, perché, se non si lavora prima a rendere disponibile per tutti quella ricchezza scaturita dall’enorme aumento della produttività, ogni tentativo di svolgere quel lavoro necessario che non viene svolto è destinato a naufragare miseramente. Insomma, per combattere coerentemente la battaglia finalizzata a far prevalere la strategia della riduzione dell’orario di lavoro, si deve acquisire la consapevolezza che questa strategia ha senso solo all’interno di una teoria generale o, se si preferisce, di un modo di pensare, nel quale si affronta il problema delle forme produttive, delle forme della ricchezza e delle forme dell’individualità. Con le parole di Marx, bisogna cioè elaborare una sorta di “economia politica dei lavoratori”, nella quale la critica delle forme di vita e di pensiero, che hanno sin qui prevalso, non svolge solo una funzione disgregatrice delle relazioni dominanti, ma anticipa e prepara forme di vita e di pensiero socialmente superiori perché capaci di far fronte a quei problemi che, su quella base, sembrano irrisolvibili.
Non che questo bisogno sia completamente assente. Ma di solito il suo soddisfacimento viene immaginato in maniera ingenua, cioè si crede che basti sovrapporre all’economia politica – che è la forma di sapere che rappresenta la ricchezza borghese – le intenzioni proprie della classe operaia. Ma non è così. O queste intenzioni si concretizzano nella capacità di anticipare e preparare un mondo della ricchezza e dello sviluppo alternativi o – finendo con l’essere in contrasto con il sistema di rapporti dal quale pretendono di svincolarsi, e che gli stessi lavoratori vogliono riprodurre – sono destinate a essere contraddette da un modo di vita che non le contempla.
Nelle precedenti lotte per la riduzione dell’orario di lavoro – quelle che hanno portato la giornata lavorativa dalle quindici alle otto ore – questo passaggio non era così essenziale. La figura attraverso la quale lottare poteva infatti essere quella di un generico obiettivo di civiltà – ridurre la fatica a un livello fisiologico – sul quale tutti potevano concordare con facilità. Ora però le cose stanno molto diversamente. Se da un ventennio è tornato a essere sempre più difficile riprodurre il rapporto di lavoro salariato nella misura necessaria a garantire una giornata lavorativa di otto ore a tutti, bisogna spiegare il perché di questo fenomeno. Bisogna cioè analizzare perché il tentativo di far fronte al problema della disoccupazione di massa creando lavoro aggiuntivo è destinato al fallimento ed è conseguentemente più sensato adoperarsi a redistribuire tra tutti il lavoro che resta da fare.
Oltre i confini del rapporto di lavoro salariato
Se, parlando con una persona che non ha sufficientemente approfondito la dinamica sociale in atto, sosterrete che è praticamente impossibile affrontare il problema della disoccupazione creando un lavoro aggiuntivo per i disoccupati, potete essere certi che strabuzzerà gli occhi. Il motivo di questa sorpresa è presto detto. Essa scaturisce dalla convinzione che il lavoro così com’è, il lavoro salariato, sia non solo la forma nella quale normalmente si provvede oggi a soddisfare i bisogni, ma anche l’unica forma che può consentire questa soddisfazione. Per dirla con Marx, ci troviamo normalmente di fronte a degli interlocutori che hanno “naturalizzato” le forme della vita sociale, immaginando che il produrre umano non possa intervenire altrimenti che come sono abituati a praticarlo. Per questo la rinuncia a cercare di creare altro lavoro, viene erroneamente sperimentata come una rinuncia a procedere ulteriormente sulla via dello sviluppo. Paradossalmente, però, la proposta della riduzione dell’orario di lavoro persegue proprio lo scopo di rendere possibile uno sviluppo che altrimenti non potrebbe intervenire. Ma chi propone la riduzione dell’orario con la consapevolezza della sua complessità non è neppure lontanamente orientato verso questo tipo di conclusione. Al contrario, ritiene che i bisogni emergenti possano essere soddisfatti solo se si rinuncia a cercare di soddisfarli ricorrendo a una pratica sociale che, per la forma che assume, inibisce quella soddisfazione. È evidente che se non si percepisce lo svuotamento subito da questa forma ogni discussione su questo obiettivo appare insensata.
Ma ci sono esseri umani disposti ad accollarsi il “negativo” che bisogna affrontare per potersi avvicinare a questa nuova realtà?