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L’Iran e noi

Di solito preferiamo non sindacare sugli usi e costumi delle altre culture, e delle relative credenze religiose, perché una sensibilità intorno alle differenze è un presupposto indispensabile per un discorso che si ispiri, in modo innovativo, al socialismo. Per conseguenza, non ci piacciono le vignette su Maometto che puntano – ne siano consapevoli o no i loro autori – su una superiorità della civiltà occidentale, irridendo tradizioni diverse dalla nostra, e all’interno delle quali si trovano invece elementi su cui varrebbe la pena talvolta di riflettere, nel segno di una messa in questione del capitalismo e degli orrori che ne sono derivati, primo tra tutti quello del colonialismo. Ma le lotte sanguinose – a più riprese, nel corso degli anni – di una parte consistente della popolazione iraniana, soprattutto giovanile, ci interrogano. In primo luogo, perché si tratta di sollevazioni che provengono dall’interno stesso della società (checché ne dicano gli esponenti del regime teocratico, pronti, come sempre avviene in casi del genere, a denunciare la mano di potenze straniere); e poi perché si tratta di movimenti di libertà contro un’oppressione che dura da più di quarant’anni, scaturita da una imponente rivoluzione popolare antimperialista che, in maniera del tutto imprevedibile rispetto ai canoni dell’epoca (siamo nel 1979), prese la piega di un ritorno neotradizionalista di marca politico-religiosa. Ciò contribuì, in modo determinante, a mettere in crisi alcune delle nostre certezze “progressiste”: ma come, nel pieno del Novecento, poteva accadere che una rivoluzione seguisse un canovaccio così inusitato?

Bisogna considerare che il regime iraniano è qualcosa di diverso sia dalle monarchie assolute che in quella parte di mondo ingrassano, com’è noto, sulla rendita costituita dagli idrocarburi, sia da quei regimi postcoloniali, per lo più militari, che furono l’obiettivo delle grandi proteste di piazza delle cosiddette primavere arabe, una dozzina di anni fa. Per strano che possa apparire, la repubblica islamica sciita è un sistema politico in cui la sovranità non appartiene neppure nominalmente al popolo ma al “sovrano giurista” esperto del Corano, cioè al teologo. È a lui che spetta di inquadrare le leggi in modo tale che siano, in un certo senso, la preparazione del regno dell’“imam nascosto” che riapparirà soltanto alla fine dei tempi. È all’interno di questa tensione escatologico-utopica che vanno inserite le forme di disciplina, anche corporale, che fanno parte del quotidiano di chi vive sotto il regime teocratico. Per trovare un parallelo, nella nostra cultura, bisogna risalire a Savonarola e al suo tentativo di riforma sociale nella Firenze del Rinascimento. Oppure a certe teologie politiche protestanti.

Elezioni in Iran, come volevasi dimostrare

Come previsto da tutti gli osservatori, l'ultraconservatore Raisi – candidato "ufficiale" della Guida suprema, l'ayatollah Khamenei – ha vinto le elezioni presidenziali di venerdì scorso in Iran. Si pensi che, su oltre cinquecento aspiranti, solo sette erano stati ammessi dal Consiglio dei guardiani della costituzione (composto da sei religiosi nominati dalla Guida e da sei giuristi convalidati dal parlamento su proposta del potere giudiziario), un organo che ha la facoltà di invalidare le candidature. La partecipazione al voto è stata, però, la più bassa di sempre: meno del 50% degli aventi diritto. Non siamo comunque ai livelli dell'Algeria, dove pure di recente si sono tenute delle elezioni per il parlamento e la percentuale dei votanti è stata di poco superiore al 23% (ma qui l'opposizione, organizzata nell'Hirak – il movimento che, nei mesi precedenti alla pandemia, era riuscito a mettere in scacco il potere –, aveva apertamente esortato al boicottaggio dello scrutinio).