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Giornalismo in trasformazione. Dov’è la sinistra?
Di cosa dovrebbe discutere la sinistra, nella congiuntura peggiore della sua storia nel nostro Paese, se non del destino del giornalismo e del prossimo congresso dei giornalisti? Esistono davvero interessi sociali, ceti professionali, figure produttive, culture tecnologiche più centrali e significative per il futuro della democrazia del mestiere di gestore degli apparati dell’informazione? (Uso il termine “centrali” proprio con chiaro riferimento al vecchio slogan sulla “centralità operaia” che tenne banco per due decenni nella sinistra italiana). Sembra che oggi, giunti proprio sull’orlo del burrone, su cui stiamo danzando come componenti del variegato e ormai anche eccentrico mondo della sinistra, sia venuto il momento di interrogarsi, prima ancora che sul nome del prossimo leader, sui ceti sociali che possono caratterizzare una nuova fase politica propulsiva delle forze progressiste.
In questa nuova base sociale, le figure del ciclo produttivo dell’informazione non possono non avere un ruolo centrale. Siamo nel pieno dell’espansione dell’economia dell’informazione. Si calcola che almeno il 75% del Pil si basi su uno scambio permanente di dati e comunicazione. Di più, la transizione dalle esperienze e pratiche di giornalismo tradizionale a quello digitale mettono in gioco sia l’idea di sicurezza nazionale, nell’epoca della guerra ibrida – in cui, come spiega il generale russo Gerasimov, “si combatte interferendo nel senso comune dell’avversario” –, sia la struttura e natura della democrazia attaccata dai monopoli degli algoritmi che scompongono, isolano e subornano moltitudini di individui attraverso flussi di informazioni altamente personalizzate.