È piuttosto semplice il principio di eguaglianza cui si ispira la gauche in Francia. Si potrebbe definirlo lineare. Rispetto alla isonomia borghese – parola difficile, che significa “eguaglianza davanti alla legge” –, che sarebbe poi un’eguaglianza soltanto formale in cui ognuno ha gli stessi diritti di un altro, la rivendicazione di una tassa sui super-ricchi oltre i cento milioni, va nella direzione di quella eguaglianza sostanziale alla base di qualsiasi movimento socialista fin dalle origini. Per uno strano scherzo della storia, nello psicodramma francese (il premier Lecornu si è dimesso in quattro e quattr’otto, ed è poi stato incaricato di verificare se nell’Assemblea ci sia una maggioranza contraria a nuove elezioni anticipate dopo poco più di un anno), cioè nella stramba situazione in cui un presidente come Macron, ostinato nella sua politica neoliberista, ha fin qui evitato di aprire a sinistra, beh, in tutto questo, una cosa è venuta fuori con chiarezza. Ed è il discrimine, la linea divisoria, il clivage (come di dice in francese) tra chi vuole una politica economica e finanziaria di equità, per cominciare a rientrare dall’enorme deficit statale, e chi in nessun caso vorrebbe tassare la ricchezza, e magari neppure sospendere, se non altro, una contestatissima legge sulle pensioni imposta, a suo tempo, senza un voto in parlamento.
Se si pensa anche alle agitazioni che da settembre si sono avute nel Paese, con manifestazioni di protesta e scioperi, sia autorganizzati sia indetti dalle confederazioni sindacali, la situazione in Francia è ormai cristallinamente chiara: assistiamo a un ritorno delle lotte di classe nel mezzo di una crisi politica. Non per nulla il Medef (la Confindustria francese), e il padronato in genere, hanno subito cominciato a strepitare quando sembrava possibile che qualcosa come la tassa Zucman (dal nome dell’economista che l’ha proposta) sulle grandi fortune potesse essere inserita, su pressione dei socialisti, nel programma di governo. A parte i dissidi nel suo stesso schieramento politico, dovuti più che altro a rivalità personali, Lecornu si è dovuto dimettere alla svelta perché non è riuscito a venire incontro in alcun modo alle richieste della sinistra. Nemmeno di quelle di una sua parte – considerando che Mélenchon, da tempo, si è chiamato fuori, non facendo altro che chiedere le dimissioni di Macron pensando di poter diventare lui presidente in un eventuale ballottaggio contro il candidato o la candidata dell’estrema destra: cosa peraltro nient’affatto scontata.
Ora, constatato che uno scioglimento dell’Assemblea sarebbe un’avventura che darebbe soltanto qualche seggio in più ai lepenisti, e che, in mancanza dell’approvazione di un budget per il 2026, sarebbe anche un ulteriore indebolimento finanziario della Francia, Macron si prepara forse finalmente ad aprire a sinistra. Il nodo, però, non è più quello sulla tassa sui super-ricchi, quanto piuttosto quello della sospensione e della revisione parlamentare della famigerata legge sulle pensioni. Con un premier – e questa sarebbe una notevole differenza – socialista o almeno orientato a sinistra.
Staremo a vedere, l’intera faccenda dovrebbe avere uno sbocco a breve, con la nomina del nuovo premier. Ma quello che ci interessava segnalare è che – per un insieme di fattori, tra cui senza dubbio la presenza in Francia di una sinistra politica che, pur tra molte divisioni interne, riesce comunque a dire la sua – mai come nel recente passato una crisi, innescata da un blocco dovuto alla mancanza di una maggioranza parlamentare, sia venuta svolgendosi nel senso del più classico dei conflitti sociali, con il delinearsi di interessi nettamente contrapposti. È una prospettiva di eguaglianza sostanziale, di riduzione dello strapotere della ricchezza, quella che è tornata a fare capolino nella vicenda francese.
Post-scriptum (11/10/25) – Contro ogni previsione, Macron ha finito col rinominare Lecornu. Come ci era già capitato di scrivere, perseverare è diabolico. Molto negativa, come c’era da aspettarsi, la reazione dei partiti di sinistra, socialisti in testa, che pure hanno posto come condizione, per non arrivare subito alla “censura” (cioè a un voto di sfiducia parlamentare nei confronti del nuovo governo), che sia sospesa senza indugio la riforma delle pensioni. Si prolunga così la crisi politica francese, in mancanza di un compromesso tra il centro macroniano e la sinistra. Ci sarà da votare il budget 2026, poi tutti i nodi saranno gli stessi: scioglimento dell’Assemblea nazionale e nuove elezioni o dimissioni di Macron, su cui ormai piovono le critiche anche da una parte del suo stesso campo.








