Questo forum su un “Programma per la sinistra” è un altro appuntamento delle riflessioni di “terzogiornale” sul mondo che cambia. Abbiamo cominciato a riflettere sul “welfare” (vedi qui e qui), in seguito sul rapporto tra “pubblico e privato” (sulla base di un saggio di Massimo Florio: vedi qui e qui), per poi affrontare il tema della “forma partito” e del rapporto tra “partiti e movimenti” (ancora qui e qui). Proseguiamo ora con una discussione su una sinistra che deve rinnovarsi, nell’era della grande trasformazione tecnologica e dei trionfi elettorali delle destre. Questo pezzo non è la trascrizione integrale degli interventi dei nostri ospiti, ma una griglia di parole-chiave, un crogiuolo di temi emersi dal confronto. I testi sono stati estrapolati dagli interventi di Nicolò Bellanca, Laura Pennacchi, Giacomo Gabbuti secondo un ordine logico. Trattano del salto antropologico del “mondo nuovo”, del concetto di eguaglianza, della ridefinizione del lavoro, della fiscalità sui super-ricchi, delle tasse di successione, delle pensioni. Alla discussione, svoltasi il 25 settembre scorso, per “terzogiornale” hanno partecipato Rino Genovese e il sottoscritto.
Siamo in un mondo nuovo?
BELLANCA – Nella breve introduzione inviataci da Paolo Andruccioli per preparare questo incontro, si dice giustamente della “accumulazione dell’algoritmo” e del divario tra chi ha in mano il sistema di calcolo e chi è calcolato. È un’intuizione fondamentale che va sviluppata attraverso quella che il sociologo inglese Michael Mann ha chiamato la “teoria del potere sociale”. Oggi l’estrazione del valore non avviene più soltanto nella fabbrica attraverso il pluslavoro, ma avviene attraverso quattro reti di potere interconnesse. Il potere economico delle piattaforme (Amazon, Google, Meta ecc.) che non traggono valore solo dal lavoro dei dipendenti, ma dai dati che tutti noi produciamo gratuitamente. Ogni click, ogni ricerca, ogni acquisto diventa capitale per chi controlla l’infrastruttura digitale. Poi c’è il potere ideologico. Chi controlla i mezzi di comunicazione e gli algoritmi dei social media, plasma la nostra percezione della realtà. Decide cosa è virale, cosa è rilevante, cosa è ragionevole. È una espropriazione del dibattito pubblico. Esiste poi il potere politico catturato. La ricchezza si traduce direttamente in influenza attraverso finanziamenti ai partiti, lobbying, porte girevoli tra consigli di amministrazione e ministeri. La democrazia diventa così permeabile agli interessi dei più forti. Infine, il potere militare securitario, il controllo dei dati diventa controllo sociale, sorveglianza, capacità di prevedere e influenzare comportamenti. Quando un’oligarchia controlla contemporaneamente queste quattro reti, abbiamo quella che possiamo chiamare convergenza del potere, una concentrazione che rende impossibile qualsiasi mobilità sociale e qualsiasi cambiamento democratico.
GENOVESE – Ritorna, in questo periodo, l’espressione di feudalesimo capitalista, che girava già ai tempi del socialismo utopistico. Una definizione antica, ma che oggi ritorna anche alla luce del fenomeno delle tasse di successione bassissime, sebbene non dappertutto siano così basse come in Italia, ma tasse di successione comunque basse, che favoriscono questa situazione incredibile per cui abbiamo sempre più una società di eredi. C’è chi eredita un grosso appartamento e poi, soprattutto in Italia, lo divide, facendone due o tre appartamenti. Poi va a vivere magari anche in affitto, creando reddito sugli affitti brevi che si possono ricavare dall’eredità ricevuta. È una situazione in qualche modo paradossale, perché è come se venisse fuori una sorta di affarismo dal basso, cosicché questa spinta, diciamo, neoliberista non è più soltanto una cosa dall’alto. È cominciata sicuramente così, ma adesso assistiamo – in conseguenza del calo demografico e con l’aumento di genitori e nonni che lasciano le proprietà a figli e nipoti – anche a una forma di spostamento della ricchezza, di trasformazione della ricchezza, per cui i redditi da lavoro in definitiva contano sempre meno e invece i beni ereditati sempre più. Ciò impone una revisione della tassazione sulle successioni, attualmente risibile per quanto è leggera.
GABBUTI – Aumenta anche una ricchezza di tipo diverso. Se pensiamo a una progressiva applicazione dell’Intelligenza artificiale (IA) in sostituzione del lavoro, ci immaginiamo un mondo in cui la quota di reddito che va ai profitti va allargandosi, perché per l’appunto diminuisce il ruolo del lavoro (e del salario), e al suo posto si remunera il capitale necessario all’acquisto di un robot o di un brevetto. Se questa è la tendenza che ci immaginiamo, il punto non è solo tassare il capitale, i profitti, e anche le rendite più del lavoro dipendente – che oggi regge la gran parte della contribuzione fiscale in Italia –, ma prima ancora porci il tema di chi detiene il capitale. Ci è utile, in questo, l’elaborazione di Branko Milanovic: se ci basiamo su un capitalismo “classico”, in cui il capitale lo detiene il 10% più ricco che vive solo di reddito da capitale, e poi ci sono gli altri che appartengono al 90% della popolazione che vivono di lavoro, andiamo verso un mondo ovviamente disastroso, di povertà diffusa. Un mondo che veniva già descritto dalla fantascienza degli anni Settanta. Già allora si immaginava il reddito universale garantito come forma obbligata per mantenere il consumo delle masse che non avrebbero più lavorato.
L’idea secondo cui non servirà più il lavoro si lega all’accesso al consumo, che diventa impossibile senza un reddito legato al lavoro, e quindi servirebbe garantirlo per mantenere l’accumulazione, perché sennò queste macchine non produrranno per nessuno. Ma possiamo anche pensare a uno scenario alternativo, con la proprietà di queste macchine che diventa diffusa: allora ci immagineremmo un mondo di capitalisti, con tanti piccoli proprietari di IA che avrebbero una rendita diffusa, che non deriva più dall’immobile ereditato dalla nonna.
PENNACCHI – Il mondo sta cambiando rapidamente, ma ciò di cui abbiamo bisogno è un progetto, non solo delle proposte, per l’appunto un progetto. Quanto alle proposte, io invito a leggere meglio quello che succede nell’ambito della sinistra italiana, senza fermarsi alle semplificazioni giornalistiche. A volte i media si abbandonano a rappresentazioni che sono autentiche falsità, per esempio si dice che non si stia procedendo a sinistra a un lavoro di elaborazione di proposte. Ma le cose non stanno così. Sulla politica industriale, per esempio, che ritengo uno degli assi più importanti da seguire, è stato organizzato addirittura un grande convegno, durato due giorni, a cui ha partecipato anche il presidente di Confindustria, oltre al presidente delle cooperative e a varie dell’artigianato eccetera, organizzato da Andrea Orlando, e che era stato preceduto da mesi e mesi di lavoro. Sono stati prodotti documenti eccellenti e lì c’è un enorme lavoro già fatto, tutto nel segno del recupero del ruolo dello Stato, della reindustrializzazione di cui il Paese ha bisogno per uscire dalla vera de-industrializzazione che ormai opera dappertutto.
Una bandiera antica: l’uguaglianza
BELLANCA – Un punto di partenza ineludibile per un “Programma per la sinistra” è la lotta alla disuguaglianza, che nel nostro Paese ha assunto la forma di una vera e propria spirale dei privilegi. Un meccanismo perverso in cui un vantaggio acquisito in un campo – patrimonio, istruzione, relazioni – si converte automaticamente in un accesso privilegiato in tutti gli altri, creando un sistema di caste di fatto che soffoca il talento e nega le opportunità.
Ma per troppo tempo la sinistra si è concentrata su quella che chiamo “eguaglianza semplice”: redistribuire denaro, ridurre il divario di reddito, importante certo, ma insufficiente. Oggi le disuguaglianze operano come una spirale di privilegi che si autoalimenta. Chi ha denaro compra non solo beni di consumo, ma ha accesso privilegiato all’istruzione di élite, a cure sanitarie migliori, influenza la politica attraverso l’attività di lobbying e con il controllo dell’informazione. È quello che Michael Walzer chiama la “tirannia dei beni dominanti”. Quando il possesso di un bene, il denaro, ti dà automaticamente accesso a tutti gli altri beni sociali. Ecco perché propongo di adottare il paradigma dell’“eguaglianza complessa”. Non si tratta di livellare tutti i redditi, sarebbe impossibile e probabilmente dannoso. Si tratta invece di erigere quello che si potrebbe chiamare il firewall istituzionale, ovvero barriere che impediscano al denaro di comprare tutto.
Faccio un esempio concreto che può sembrare banale, ma è rivelatore. In un mio articolo sull’overtourism a Firenze, proponevo che, invece di alzare i prezzi per limitare l’accesso al centro storico, soluzione che esclude i meno abbienti, si tratterebbe di contingentare gli ingressi con regole uniformi attraverso prenotazioni, argomentando contro le tradizionali obiezioni pratiche. È una piccola applicazione di eguaglianza complessa, impedire che il denaro sia l’unico criterio di accesso a un bene comune.
PENNACCHI – Bellanca propone il concetto di eguaglianza complessae a me sta bene, ma penso anche che il concetto di eguaglianza complessa sia troppo poco evocativo, perché noi stiamo ragionando tra noi non solo per trovare uno schema analitico soddisfacente, di alto livello, ma anche per individuare idee e parole d’ordine che colpiscano la fantasia, l’immaginazione, la mente e il cuore delle persone. Eguaglianza complessa è un termine esatto, molto condivisibile, ma è poco evocativo, e dovremmo sforzarci di trovarne uno più evocativo. Al tempo stesso, penso che è la parola eguaglianza sia sempre più insufficiente. Ci vuole assolutamente, ed è il cardine dell’azione della sinistra negli ultimi due secoli. Ci vuole, ma non può bastare da sola. Già all’epoca di Norberto Bobbio ero perplessa. A quel tempo (inizio anni Novanta, ndr) c’era Vittorio Foa che diceva che l’asse della sinistra è la libertà e Bobbio rispondeva con l’uguaglianza. Abbiamo bisogno di riappropriarci di tutto quello che c’è dietro la libertà, che non è solo libertà di scelta sul mercato come ha fatto il neoliberismo, ma tanto di più: buon vivere, vita buona. Perfino felicità. Un concetto da legare al discorso sul modello di sviluppo. A mio parere, la vera dimenticanza della sinistra non è l’eguaglianza. La vera “colpa” della sinistra non è tanto di avere dimenticato l’eguaglianza, ma di averne proposto una versione inadeguata. Perfino Tony Blair non ha mai abbandonato la parola eguaglianza, lui parlava di eguaglianza di opportunità. La vera dimenticanza delle sinistre per me è il lavoro.
BELLANCA – Ai tempi dell’uscita del libro di Bobbio su Destra e Sinistra, Vittorio Foa, come ricordava Laura Pennacchi, richiamava l’asse della libertà come caratteristico della sinistra anziché l’asse della eguaglianza. Ma voglio segnalare qui anche un’altra reazione significativa, quella del grande sociologo Alessandro Pizzorno, secondo il quale l’asse su cui concentrarsi non è l’eguaglianza ma l’inclusione. Chi conosce gli scritti di Pizzorno capisce bene dove voleva andare a parare. Inclusione vuol dire essere o non essere riconosciuti, avere o non avere dignità. Questa riflessione si inscrive nella stessa prospettiva del filosofo Michael Walzer. Quando Walzer parla della dominanza intesa come una disuguaglianza complessa per la quale chi domina in una sfera riesce a convertire le sue risorse, per esempio la risorsa economica in risorse che lo portano a tiranneggiare anche nella sfera culturale, anche nella sfera politica, anche nella sfera mediatica e via discorrendo.
Quindi, tirando le fila, non spetta a me evocare qualche formula che riesca a far battere i cuori del nostro popolo, e sono d’accordo con Laura Pennacchi che eguaglianza complessa non riesce in questo. Probabilmente, però, l’espressione o il riferimento all’inclusione che faceva Pizzorno va più in quella direzione, è più promettente. Un altro riferimento è quello all’economista Claudio Napoleoni. Egli usava categorie marxiste che oggi vanno rivisitate, ma in buona sostanza l’idea di Napoleoni, a suo modo provocatoria, era “Muoviamoci tra due modelli di capitalismo”. Uno è il capitalismo storico che troviamo di fronte a noi, in Italia, il quale è basato sul tendenziale pericoloso affermarsi delle rendite. E l’altro è il capitalismo puro, quello al cui centro vi è una dialettica anche feroce, anche antagonistica, tra capitale e lavoro, tra redditi da lavoro e, diciamo, forme di profitto. Allora, sosteneva Napoleoni, “per carità, io sono comunista e il capitalismo puro non mi sta bene, ma mi sta ancora meno bene un capitalismo storico all’italiana in cui le rendite tendono a pervadere e a dominare sempre di più”.
Il tramonto del lavoro
PENNACCHI – Dobbiamo ricominciare a parlare di lavoro. Il lavoro, certo, non come fatto economico, che è appunto uno dei risultati massimi del neoliberismo, l’avere svalutato il lavoro, averlo svalutato sul piano salariale, sul piano materiale, sul piano morale, sul piano culturale e averlo ridotto a fatto puramente economico. La dimenticanza delle sinistre non sta qui, non sta nemmeno nelle statistiche sul lavoro del mercato del lavoro di cui abbondiamo. La dimenticanza sta nell’uso del lavoro come quadro prospettico generale, da intendere come orizzonte. Nei termini di Herbert Marcuse, quando scrisse il saggio sul lavoro dopo avere letto per la prima volta i Manoscritti economico-filosofici di Marx. E questa dimenticanza del lavoro come quadro prospettico complessivo ha lasciato molto spazio a tutto il delirio, chiamiamolo così, della società senza lavoro. Lo considero un delirio a cui conseguentemente è stato legato l’altrettanto delirante discorso sul basic income.
Con un piccolo gruppo di seguaci, abbiamo scritto una legge che si chiama “Per la piena e buona occupazione, in particolare per giovani e donne” nella quale procediamo anche a una sistemazione, a quella che a noi parrebbe una sistemazione interessante del dettato costituzionale che mette il lavoro all’articolo uno. Se si studiano gli atti della Costituente, vedrete che c’è stato un dibattito anche su quell’articolo. Gli stessi democristiani fanfaniani erano preoccupati di porre un argine al primato della proprietà privata, e di mettere quindi nel primo articolo il lavoro.
BELLANCA – Un programma di sinistra non può prescindere da una riflessione sul nesso tra democrazia e lavoro. Come sostiene Axel Honneth nel suo Il lavoratore sovrano, le modalità concrete attraverso cui organizziamo il lavoro determinano direttamente la qualità della nostra democrazia. Se i luoghi di lavoro sono caratterizzati da gerarchie rigide, assenza di autonomia e precarietà, come possiamo aspettarci che i cittadini sviluppino le competenze e la fiducia necessarie per partecipare attivamente alla vita pubblica? È necessario, quindi, democratizzare l’impresa, trasformando i luoghi di lavoro in “palestre di democrazia”.
La tassa sui super-ricchi
BELLANCA – Sappiamo che in Italia la parola “patrimoniale” è un tabù, parola monster. Ma bisogna essere chiari su questo punto: senza una seria tassazione progressiva sui grandi patrimoni, tutto il resto è cosmesi. Non si tratta di punire i ricchi per invidia sociale. Si tratta di due obiettivi strategici, di cui il primo è quello di spezzare la spirale intergenerazionale dei privilegi. I dati forniti da Gabbuti (in Non è giusta. L’Italia delle disuguaglianze) mostrano che, nel nostro Paese, la ricchezza ereditata determina sempre più le opportunità di vita. Una tassazione progressiva sui patrimoni è l’unico modo per rallentare questa cristallizzazione delle caste.
Il secondo obiettivo è quello di difendere la democrazia dalla plutocrazia: quando l’1% della popolazione controlla il 25% della ricchezza nazionale, controlla anche una quota sproporzionata del potere politico. La tassa patrimoniale è una misura di igiene democratica. L’imposta Zucman di cui si parla, 2% sui patrimoni sopra i cento milioni, è il minimo, ma attenzione, deve essere coordinata a livello europeo, altrimenti avremo solo fuga dei capitali, e dev’essere accompagnata da misure che colpiscano le rendite, tassazione delle transazioni finanziarie, lotta all’evasione attraverso i paradisi fiscali, imposta sulle successioni. So che qualcuno obietterà “ma così i ricchi se ne vanno”. Primo, con un coordinamento internazionale questo rischio si riduce. Secondo, e più importante: preferite una società dove pochi oligarchi decidono tutto o una democrazia vera dove il potere è distribuito?
PENNACCHI – Rispondo alla domanda netta che ci viene posta. Sì, io penso che una tassa sulle grandi ricchezze sia assolutamente da proporre. Ed è realizzabile: è assolutamente fattibile una tassa sui patrimoni del 2% sui patrimoni che superino una cifra tutto sommato molto alta. Però questo discorso per passare, soprattutto in Italia, deve essere fatto in riferimento a un discorso più completo sulla legittimità democratica della tassazione. La tassazione come istituzione centrale della democrazia secondo la Costituzione del 1948. E quindi si deve operare per una rilegittimazione della tassazione, invece screditata come istituto dai tempi di Reagan e Thatcher. Da allora il discredito si è diffuso ovunque, perché si è capito che quel discredito serviva a produrre molti benefici fiscali, privilegi enormi, riduzione di tasse per i ceti alti. Si è trattato di un fattore fondamentale, non il solo, dell’esplosione delle diseguaglianze che abbiamo visto da quegli anni a oggi, e tanto più vediamo oggi.
Quel discredito è stato motivato, per quanto rozzamente motivato, sul piano teorico e perfino filosofico. Motivato con l’argomento, con la teoria economica dell’offerta, e con l’argomento che bisognasse “affamare la bestia”, starving the beast. E la bestia, come sappiamo, sono gli Stati e le istituzioni pubbliche, che dovevano essere affamati sottraendo loro le risorse che vengono per l’appunto dalla tassazione, perché Stati, governi, istituzioni si finanziano prevalentemente con la tassazione. E questa operazione di starving the beast, di delegittimazione della tassazione, è arrivata veramente a punti così elevati da spingere la sinistra – in questo caso, penso che sia giusto dirlo – a essere estremamente reticente. La tassazione è diventata un tabù.
A proposito di riflessioni filosofiche andrebbero recuperate, per esempio, quelle di Thomas Nagel che scrisse, all’inizio degli anni 2000, un libro bellissimo che si chiamava The Myth of Ownership (“Il mito della proprietà”), in cui si faceva già un bellissimo discorso, molto forte, sulla legittimità per l’appunto della tassazione. Si è andati però nella direzione contraria, e nelle ultime azioni di governo come la flat tax, che ora si vuole allargare, ne abbiamo conferma. Intanto il fiscal drag non è stato restituito, e quindi il finanziamento dei benefici fiscali in termini di tagli delle tasse che vanno ai ricchi ed è in gran parte finanziato dai lavoratori dipendenti e dai pensionati, perché il fiscal drag grava anche sui pensionati; sono stati fatti tantissimi condoni, concordati fiscali, ravvedimenti, tutte cose che continuano a delegittimare la tassazione. La stessa presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, aveva parlato delle tasse sugli artigiani come “pizzo di Stato”. Qui siamo proprio all’aberrazione.
Ecco, penso che si debba fare tutto insieme questo discorso che è molto attuale e molto importante, tanto più se guardiamo a quello che sta succedendo negli Stati Uniti. Le misure introdotte da Donald Trump spostano quote di ricchezza verso i redditi più alti. Tutte le misure fiscali vanno considerate insieme ai tagli alla social security, ai tagli anche al personale che significa, poi, che quelle istituzioni non potranno più funzionare. Questi tagli spostano enormemente il beneficio sui ceti più ricchi, non sul 10% più ricco, ma proprio sullo 0,1%, e per i ceti più poveri, se consideriamo anche i tagli che contemporaneamente vengono fatti, c’è addirittura un aggravio di tassazione.
Tasse di successione
BELLANCA – Sulla questione delle tasse di successione andrebbe recuperata una proposta dell’economista Eugenio Rignano (come ricordato da Giacomo Gabbuti in un articolo su “Jacobin Italia”). Rignano propose, un secolo fa, una tassa di successione fortemente progressiva, ma non basata sull’ammontare del patrimonio, bensì sul numero di trasferimenti generazionali. In pratica: una parte della ricchezza verrebbe tassata in modo contenuto nel primo passaggio (per esempio da padre a figlio), ma con aliquote crescenti nei passaggi successivi, fino a un prelievo quasi totale dopo la terza generazione. Questo meccanismo incentiverebbe la ricchezza a “rientrare nel circolo dell’economia reale” attraverso investimenti e donazioni, anziché cristallizzarsi in rendite parassitarie.
GABBUTI – Per quanto mi riguarda, recupererei la proposta del “Forum disuguaglianze e diversità”, perché è basata su uno studio rigoroso delle attuali dichiarazioni di successione (vedi qui). Adesso abbiamo un’aliquota secca molto bassa, il 4%, che si applica sopra il milione ereditato. Sotto questa cifra, si pagano solo le imposte di registro. Quindi l’aliquota media è attualmente molto bassa, perché ovviamente parliamo del milione di quote ereditate, per cui anche su un patrimonio milionario, se è diviso tra due figli, non viene pagata la tassa. Quello che propone il “Forum disuguaglianze” è di tenere l’esenzione totale fino a cinquecentomila euro; per chi eredita più di quella cifra, portare l’aliquota al 5%, quindi marginalmente di più di quanto si paga ora; dal milione in su l’aliquota marginale – cioè, quella applicata sulla differenza tra la cifra ereditata e un milione di euro – salirebbe al 25%, per poi portarla al 50% sopra i cinque milioni di eredità ricevuta.
Anche in questo caso, parliamo della quota che eccede i cinque milioni: l’aliquota media sarebbe quindi molto più bassa anche per i ricchi, che pagherebbero il 5% sul primo milione, il 25% sui quattro milioni successivi, e il 50% solo sull’eccedenza. Non sono valori storicamente fuori scala, anzi nel Rapporto prodotto dal “Forum disuguaglianze”, senza andare indietro a metà del Novecento, si vede che l’imposta vigente fino al 1999 – qualcosa che alcuni ricorderanno, avendola magari pagata – prevedeva aliquote marginali già a 250.000 e l’aliquota massima, superiore al 25%, si raggiungeva già a un milione e mezzo. Nella proposta del Forum, su eredità fino a cinquecentomila non si pagherebbe assolutamente nulla, e si pagherebbe più del 1999 solo a partire dai cinque milioni. Più in generale, se l’imposta di successione colpisce la ricchezza solo al momento della morte di chi la possiede, in un Paese in cui il rapporto tra ricchezza e reddito è arrivato a circa 8 – valori in linea con quelli di metà Ottocento, contro i circa 2 registrati nel periodo del “miracolo economico” dei primi anni Sessanta –, bisognerebbe ragionare più complessivamente su come spostare il peso della tassazione dai redditi alla ricchezza.
Ma anche proposte sulle sole successioni, come queste, stentano a prendere piede per diversi motivi. Ci sono le riottosità dei partiti, e anche la resistenza di quella che si potrebbe identificare come la classe dei proprietari. Come notava già Tocqueville, i proprietari si sentono un po’ come una famiglia; le persone che possiedono tendono ad agire come gruppo sociale molto coeso, e in Italia questo gruppo tende a coincidere sempre di più con chi vota. Esiste dunque anche un certo bacino trasversale, che coinvolge i partiti del centrosinistra. Per questo non è affatto un argomento semplice. Nella proposta del “Forum disuguaglianze”, anche per provare a superare queste resistenze, l’imposta di successione serve a finanziare un’eredità universale per chi compie i 18 anni, quindi viene agganciata a una proposta di livellamento delle opportunità. Ma nonostante ciò, rimane un discorso non semplice nel nostro discorso pubblico.
La “tassa fisarmonica”
BELLANCA – Quando si parla di tassazione delle ricchezze si fa quasi sempre riferimento ai lavori di Thomas Piketty e di Gabriel Zucman, che sono diventati quasi delle star mediatiche. In giro, però, ci sono parecchie altre idee valide, antiche e recenti. Tra quelle recenti, c’è la proposta di Kaushik Basu, un grande economista eterodosso indiano allievo di Amartya Sen, il quale fra le altre cose è stato anche capoeconomista della Banca mondiale. Ebbene, in uno scritto recente Basu propone quella che lui chiama la“tassa fisarmonica”. Per superare la critica liberista secondo cui una tassazione troppo progressiva disincentiverebbe il lavoro e l’innovazione, possiamo fare riferimento a questa tassa proposta da Basu. Si tratta di un sistema fiscale progressivo che mantiene inalterate le proporzioni relative tra i redditi prima e dopo la tassazione. In questo modo, l’incentivo a migliorare la propria posizione relativa rimane intatto, smontando alla radice l’argomento della demotivazione.
È un sistema fiscale progressivo; qui facciamo riferimento al reddito e non alla ricchezza, che mantiene le proporzioni relative tra i redditi prima e dopo la tassazione, preservando gli incentivi basati sul reddito relativo, cioè dopo la tassazione. Chi guadagna di più mantiene il vantaggio economico rispetto a chi guadagna di meno, sebbene il divario si attenui nei riguardi di chi è povero, promuovendo così una maggiore equità sociale. Cito: “Poiché è il reddito relativo a motivare principalmente le persone una volta superato il livello dei bisogni di base”, e questa è una famosa tesi anche di John Maynard Keynes: l’incentivo al lavoro sarà minimamente influenzato da questa tassa. Elon Musk non smetterà di lavorare, né lo farà la signora Jones che vive nella casa accanto. Musk vorrà mantenere il suo vantaggio su Bezos, e la signora Jones sul signor Smith. Ora non entro nel merito. Quello che sto segnalando è che un’idea, una proposta come questa di Basu, a mio avviso, è estremamente feconda e suscettibile di discussione. In Italia non la conosce nessuno, non ne parla nessuno, perché? Perché i circuiti mediatici sono altri. Nonostante Basu insegni alla Corner University, sia stato capoeconomista della Banca mondiale e sia un eminente economista, evidentemente non è nei circuiti giusti.
Nel 2011 uscì uno studio di due ricercatori della Banca d’Italia che fece saltare sulla sedia, dalle parti di Firenze, perché questo studio aveva messo le mani su un archivio il quale attraversava i secoli, e, basandosi soprattutto sui cognomi, i due autori erano riusciti a documentare non soltanto che ovviamente a Firenze esiste un’élite di ricchi, ma che questa élite è rimasta sostanzialmente la stessa dall’inizio del 1400. Addirittura sono arrivati a identificare un caso specifico di una sola famiglia che ha perso soldi e potere durante i secoli. I ricchi sono sempre gli stessi, la situazione, in Italia, è di immobilità. Per questo una proposta come quella di Rignano di cui ho parlato prima è straordinariamente brillante, anche se ovviamente andrebbe aggiornata ai tempi presenti.
Pensioni, una proposta “disturbante”
BELLANCA – Dobbiamo smascherare le narrazioni tossiche che inquinano il dibattito pubblico. La più logora è quella sulla questione pensionistica, perennemente descritta come una guerra tra “giovani” e “vecchi privilegiati”. Come ci insegna Gustavo De Santis, il sistema pensionistico non è un campo di battaglia generazionale, ma una “grande pasticceria collettiva”. Il problema non è la presunta ingordigia di una generazione, ma le regole con cui si produce e si divide la torta comune. La proposta di De Santis (in Nati con la pensione) di un sistema Ipayg (Improved Pay-As-You-Go), che lega le pensioni al reddito medio della collettività, va nella direzione giusta: fondare il sistema su rapporti relativi, più stabili e trasparenti, basati sulla solidarietà. Il cuore della proposta è che le pensioni andrebbero agganciate all’evoluzione del reddito medio degli italiani. Detto altrimenti, se c’è una torta e la consumano un certo numero di persone, quelli che la producono e quelli che ormai non la producono più, che sono i pensionati, e a seconda dell’evoluzione della dimensione di questa torta si dovrebbero rimodulare anche le pensioni. Questo ovviamente va iscritto all’interno di un patto sociale.
Cosa vuol dire? Vuol dire discutere un tabù che è uno di quelle concrezioni, di quelle cristallizzazioni nella dinamica sociale, la dinamica sociale che si ferma, per cui certe pensioni diventano una forma di rendita alla Napoleoni. E se la sinistra non è capace di mordere su questo, se non riesce essa stessa a provare a smantellare criticamente certe ereditarietà, certi effetti di trascinamento che sono diventati privilegi, la sinistra non fa il suo ruolo, e diventa addirittura conservatrice.
PENNACCHI – Sulla faccenda delle pensioni, ma anche sulla proposta dell’allievo di Sen, bisogna fare attenzione perché sono tutte proposte che possono avere controindicazioni gravi, e che richiedono un altissimo esercizio tecnico di simulazione, di prova, perché bisogna fare attenzione a come la spinta originaria alla tassazione progressiva, venuta in Europa dall’inizio del Novecento, che ha trovato un grande impulso nei primi anni del Novecento, sia stata soprattutto quella di tenere conto degli equilibri di mercato, della ridistribuzione di mercato, e di usare la tassazione come correttivo degli equilibri di mercato. E noi ci potremmo trovare in una situazione nella quale, se non teniamo conto di questi aspetti, non correggiamo le diseguaglianze più accentuate che sono quelle di mercato almeno nei Paesi occidentali, sicuramente negli Stati Uniti, sicuramente in Italia. Se guardiamo la diseguaglianza prima delle tasse e dopo le tasse fanno impressione i dati, quindi c’è una funzione redistributiva che il welfare State, concepito come servizi e tasse, riesce a compiere, e che è stata di grandissimo rilievo nel Novecento, continuando a essere molto importante.
Per quanto riguarda le pensioni, si tratta di una questione di una delicatezza infinita. Ricordo che quando abbiamo varato la riforma del 1995, la legge 335, abbiamo dovuto ribaltare l’intero sistema per cercare di portare a maggiore equità, a maggiore equità anche intergenerazionale. C’era stata una discussione su come adottare la perequazione in corrispondenza al reddito pro-capite. E poi si rinunciò e si scelse la corrispondenza all’andamento del Pil. E perché si fece questa scelta? Perché c’era il rischio (che già si vedeva allora, ma che è aumentato oggi, con il proliferare del lavoro atipico, della precarietà di lavori intermittenti), il rischio che sarebbe stato fuorviante e ingiusto basarsi solo sul reddito. E questo rimane un problema aperto, come lo è la questione dell’età pensionabile. La proposta di legare la pensione al reddito e agli anni di effettivo godimento del diritto è da studiare bene, ed è da prendere con le molle. Se l’obiettivo è una maggiore equità, dobbiamo stare molto attenti perché, se nella proposta di De Santis può esserci maggiore equità per le future generazioni, per quelle oggi viventi non è la stessa cosa. Pensiamo, per esempio, a una persona che percepisce una pensione media bassa (in Italia, come sappiamo, le pensioni mediamente non sono molto alte) e che, fra dieci anni, dovrà accettare una pensione più bassa, pensiamo a come si dovrebbe sentire? E qui ritorniamo alla povertà fra gli anziani che la riforma delle pensioni voleva invece combattere. Quindi bisogna stare molto attenti. Ma comunque leggerò il libro di De Santis, e magari torneremo a parlarne.
ANDRUCCIOLI – Da questo forum sono emersi tanti spunti. La nostra intenzione non è stata però quella di stilare una lista di proposte elettorali per una sinistra che, legittimamente, vuole tornare a vincere e a governare, interrompendo il dilagare della destra autoritaria in Italia. Questo sarebbe un obiettivo ovviamente sacrosanto, all’interno di una chiarificazione sulle ragioni della sconfitta e sul declino delle idee di cambiamento. Ma siamo sempre più convinti che ci sia bisogno, per la sinistra, prima di tutto della rinascita di un pensiero critico sulla società capitalistica e, contemporaneamente, dell’elaborazione di un progetto generale, di un’altra idea di società. In questo nostro confronto si è parlato anche di scuola, di politiche industriali, di cultura e di intelligenza collettiva. Abbiamo preferito, però, concentrarci sui temi che hanno suscitato più discussione. Siamo solo all’inizio di un percorso.









