Nel ventennio durante il quale ha promosso la “rivoluzione democratica e culturale” in Bolivia, il Movimiento al socialismo (Mas) ha ottenuto nelle urne risultati incredibili, passando dal 54% dei voti nel 2005, al 64% nel 2009, al 61% nel 2014 e al 55% nel 2020. Il 17 agosto di quest’anno, il candidato ufficiale del movimento, Eduardo del Castillo, uomo forte del governo di Arce, ha ottenuto il 3,17%, portando la sua formazione politica a scomparire dal Senato, mentre alla Camera bassa, nella prossima legislatura, potrà contare solo su due seggi. Persa ogni rilevanza elettorale, il Mas è divenuto un partito marginale, e d’ora in poi dovrà cercare di ripensarsi oppure rassegnarsi all’agonia.
Il risultato del primo turno ha consegnato un’Assemblea legislativa plurinazionale frammentata, che riporta la Bolivia agli anni Novanta. La vera sorpresa, che nessun sondaggio aveva potuto prevedere, è stata quella di Rodrigo Paz che, con il suo Partito democratico cristiano (Pdc) di centrodestra, ha ottenuto il 32,06%. Non va al ballottaggio Samuel Doria Medina dell’alleanza Unidad, che ha ottenuto il 19,69%, grande favorito della vigilia. L’esito delle urne l’ha costretto a cedere il secondo posto a Libre, di Jorge “Tuto” Quiroga (26,70%), già vicepresidente e presidente, per successione costituzionale, tra il 2001 e il 2002, dopo la morte nel 2002 di Hugo Banzer, l’ex dittatore degli anni Settanta, tornato alla presidenza per via democratica nel 1997. Andrónico Rodríguez, ex delfino di Morales, ha ottenuto l’8,51% dei suffragi e otto deputati alla Camera bassa, un risultato molto lontano da alcune previsioni che lo vedevano addirittura al ballottaggio, per quanto perdente sul suo avversario di destra. Quanto a Evo Morales, che si era battuto per boicottare le elezioni, il suo voto nullo ha raggiunto un notevole 19,4%, considerato che, nella tornata elettorale del 2020, la percentuale del voto nullo era dell’1,4%.
Tale risultato conferma che Morales gode ancora di un certo seguito, soprattutto nelle campagne, ma al di là di questo probabilmente non potrà andare. Il suo movimento Evo Pueblo (Estamos volviendo obedeciendo al Pueblo) ha avviato la raccolta di firme necessarie per ottenere la personalità giuridica, con l’obiettivo di partecipare, nell’aprile 2026, alle elezioni subnazionali di governatori e membri dell’Assemblea dipartimentale, sindaci e consiglieri. E anche se il suo ex vice, Álvaro García Linera, con cui aveva rotto, pensa che senza di lui la sinistra non possa vincere, non potrà più essere il leader indiscusso di un tempo. La sconfitta si spiega innanzitutto con delle motivazioni di natura economica: il modello “estrattivista”, su cui la Bolivia ha basato lo sviluppo degli ultimi vent’anni, ha alla fine messo in luce i suoi punti deboli. La nazionalizzazione degli idrocarburi ha permesso allo Stato di riappropriarsi del controllo delle risorse naturali, in particolare del gas e del petrolio, e di gestire in modo indipendente la loro estrazione e commercializzazione. L’obiettivo principale era quello di recuperare le risorse naturali e rafforzare la sovranità economica del Paese. Ciò ha comportato un aumento consistente delle entrate fiscali, permettendo allo Stato di finanziare progetti sociali e infrastrutturali.
Da allora, i progressi realizzati nella sanità, istruzione e accesso ai servizi di base hanno ricevuto riconoscimenti a livello internazionale. Nel 2005, la povertà estrema in Bolivia aveva raggiunto il 38,5% della popolazione. Nel 2018, si era ridotta al 15%, evidenziando un notevole progresso nella qualità della vita e nell’accesso alle opportunità. E nel 2023, secondo i dati dell’Istituto nazionale di statistica, la povertà moderata, che nel 2005 toccava il 60,6% della popolazione, ha riguardato il 36,5% dei boliviani, mentre la povertà estrema è scesa all’11,9%. Il “miracolo boliviano” – come del resto i successi di quello che è stato chiamato il “socialismo del Ventunesimo secolo” in altri Paesi dell’America latina – si basava in gran parte sugli alti prezzi internazionali delle materie prime e sullo sfruttamento di giacimenti scoperti in precedenza. Con il loro progressivo esaurimento, senza essere sostituiti da nuove prospezioni, è entrato in crisi il modello di cambiamento incarnato dal primo presidente indigeno del Paese andino, mentre veniva alla luce anche un altro punto debole di quel modello, ovvero la sua incapacità di migliorare l’efficienza delle istituzioni e il suo fallimento nella creazione di un vero e proprio Stato sociale.
Il risultato elettorale dello scorso agosto ha messo la parola fine a quel cambiamento significativo nella storia politica e sociale della Bolivia. Un cambiamento caratterizzato dall’inclusione di settori tradizionalmente esclusi, e dall’attuazione di riforme che hanno promosso l’equità sociale ed economica. La crisi ha prodotto la riduzione della produzione di gas, un’alta inflazione – nonostante l’inflazione mensile in Bolivia, nel settembre 2025, sia stata bassa (0,20%), l’inflazione cumulativa del 18,33% è la più alta in quasi quarant’anni –, la carenza di carburante e la mancanza di dollari.
In tutto ciò, la proposta politica della sinistra non ha saputo rinnovarsi, puntando su nuovo impulso allo sviluppo e soprattutto su una nuova leadership. Anche le proiezioni della Banca mondiale per l’economia non sono incoraggianti. Secondo il rapporto sullo stato economico dell’America latina e dei Caraibi, presentato martedì scorso a Washington, l’economia boliviana entrerà in recessione per tre anni. La più grande diminuzione prevista sarà nel 2027, quando raggiungerà il meno 1,5%. Infine, il progetto del Mas di rinforzare lo Stato, che ha consentito una crescita economica con una inflazione stabile e bassa, non ha portato il Paese all’industrializzazione, consentendo piuttosto all’economia informale di espandersi.
Oltre alle ragioni economiche, la sconfitta della sinistra boliviana si spiega anche con l’alto tasso di litigiosità interna che l’ha portata alla dissoluzione. Appena il Mas è tornato al governo (nel 2020, dopo la parentesi del governo di Jeanine Áñez), le lotte intestine hanno prodotto un processo di vera e propria autodistruzione, determinando la divisione tra seguaci di Luis Arce Catacora, il presidente in carica, a cui i tribunali hanno riconosciuto la leadership del Mas; i sostenitori di Evo Morales, al quale è stata interdetta un’ennesima ricandidatura, e che vive nella sua roccaforte “cocalera” del Chapare per non essere arrestato; e coloro che hanno sostenuto la candidatura del presidente del Senato, Andrónico Rodríguez. In questa situazione di crisi generale, di fronte alla incapacità del governo di dare risposte alla deriva economica, e in mancanza di un’idea di sviluppo da parte della sinistra che non fosse quella legata al modello “estrattivista”, l’opposizione ha visto aprirsi davanti a sé spazi impensabili, e ha avuto buon gioco nel riuscire a incarnare l’idea di un cambiamento che la società boliviana ha ritenuto urgente e improcrastinabile.
In tal modo, tra la proposta neoliberista – rappresentata da Jorge “Tuto” Quiroga, il quale ha annunciato che, in caso di vittoria, guiderà “la più grande rivoluzione liberale della storia per trasformare la mentalità della Bolivia” in nome della “filosofia mileista” e delle ricette dei circoli di Miami –, e l’esaurirsi del modello del Mas, con la sua lotta fratricida, e la contiguità dei leader dei movimenti sociali con lo Stato, l’elettorato boliviano, ivi compreso parte di quello che in precedenza votava a sinistra, ha dato il suo consenso al “cigno nero” Rodrigo Paz, propugnatore di un “capitalismo per tutti” o di un “capitalismo popolare”. Qualcosa che alcuni analisti definiscono una strategia populista. La sua proposta di ridurre tariffe, tasse, fornire agevolazioni fiscali e possibilità di credito per tutti, al fine di riattivare l’economia nel mezzo di una crisi di carenza di dollari e carburante, gli ha fatto vincere il primo turno. “La vittoria di Paz – scrivono Pablo Stefanoni e Diego Velázquez in “Nueva Sociedad” – può essere letta come una sorta di ‘terza via’ di fronte all’arrabbiatura verso il Mas e le sue lotte di fazione, e come un rifiuto di un ritorno al potere delle élite tradizionali”.
L’ex vicepresidente Álvaro García Linera – in un’intervista video sulle elezioni rilasciata a “France 24”, all’indomani delle elezioni – ha confermato che il risultato ha rappresentato la fine del ciclo di questa sinistra in Bolivia, che non aveva risposte sufficienti a superare la crisi economica e a riportare il Paese alla crescita e alla ridistribuzione della ricchezza; mentre, negli anni del governo del Mas, la crescita annuale aveva sfiorato il 5% annuo, un tasso di crescita asiatico. “Dal 2022 – ha detto García Linera – c’è stato un declino e non ci sono state riforme di seconda generazione che potessero consentire al Mas di tornare a indirizzare il Paese. Questa è la fine di una fase del ciclo della sinistra, staremo a vedere come si rinnova una nuova fase della sinistra, perché è chiaro che ciò richiederà riforme e proposte di carattere economico-sociale migliori, differenti e più sostenibili di quelle che sono state attuate nella prima fase. (…) Ciò che ha modificato prima di tutto il sistema politico boliviano è la crisi economica. Questo ha causato la sconfitta. Una crisi economica che il governo del Mas non ha saputo controllare prendendo misure per superarla”.
Oltre a ciò, la lotta fratricida all’interno del Mas, generando delusione nell’elettorato, ha avuto come conseguenza un voto “di dispetto” da parte di gente che, per disperazione, si è afferrata al “nuovo” apparso sulla scena; e il voto che prima andava alla sinistra, è andato al centro o al centrodestra, sia pure non all’estrema destra come accaduto in Argentina. Tuttavia, il risultato elettorale del Mas non significa la scomparsa delle organizzazioni e dei movimenti sociali, tanto meno del campo “nazional-popolare”, i cui elettori hanno scelto in maggioranza al primo turno Rodrigo Paz. Se analizziamo i numeri ottenuti dal composito schieramento della sinistra, con Rodríguez e Eduardo del Castillo, e li sommiamo al quasi 20% del voto nullo di Morales, il risultato è 30,76%, un esito che avrebbe consentito a Rodríguez di andare al ballottaggio con Paz, il prossimo 19 ottobre, se Evo lo avesse sostenuto rinunciando al suo sogno di ricandidarsi; ma che probabilmente non gli avrebbe consentito di accedere alla poltrona di Palacio Quemado, sede della presidenza.
È utile citare il giudizio dello storico cileno Javier Larraín: “Lo svuotamento politico e ideologico, più l’irrefrenabile scontro di vanità e il divisionismo che si è approfondito nell’ultimo decennio, ci hanno portato fin qui: a una sconfitta che conferma il rifiuto della stragrande maggioranza della popolazione nei confronti del ‘processo di cambiamento’ e la totale assenza di un’alternativa a sinistra. Il futuro della Bolivia non sembra essere affatto promettente a breve termine, anche se c’è chi balla e si ubriaca per alcuni voti nulli qui e altri voti bianchi là. La Storia non li assolverà!”.
Rodrigo Paz è il figlio di Jaime Paz Zamora, ex presidente, che fu uno dei cofondatori del Movimento di sinistra rivoluzionaria (Mir) e che, durante la dittatura di Hugo Banzer, dovette andare in esilio con la famiglia. Rodrigo è stato deputato, consigliere, sindaco della città di Tarija e, negli ultimi cinque anni, senatore per l’alleanza Comunità cittadina dell’ex presidente centrista Carlos Mesa. Esprime rinnovamento di leadership e distanza dalla politica tradizionale, soprattutto per il fatto che questa è stata la sua prima candidatura presidenziale, mentre gli altri candidati di destra, sempre perdenti, si sono presentati più volte. Il suo candidato vice, Edman Lara, è un outsider di trentasette anni, ex capitano della polizia perseguito per aver denunciato la corruzione degli alti comandanti; al primo turno, parte del voto popolare che ha abbandonato il Mas è andata su di lui, grazie appunto all’impostazione populista antisistema. Paz e Lara incarnano la volontà di cambiamento e la lotta alla corruzione, distanziandosi dal vecchio Mas e contemporaneamente dalla vecchia destra. Sono lontani sia dallo statalismo del ventennio “masista”, che ha portato corruzione e ultimamente fallimento economico, sia dal neoliberismo del secolo scorso, cui invece vorrebbe far ritorno senza indugio “Tuto” Quiroga. Hanno registrato il loro maggiore consenso nelle regioni rurali impoverite e nei quartieri poveri delle città, aree che sono state spesso bastioni della sinistra. La gente spera che i due possano porre fine all’eredità di penuria e inflazione alle stelle lasciata dal Mas, ma senza tagliare i programmi sociali. Entrambi hanno respinto l’idea di un programma del Fondo monetario internazionale per sostenere l’economia in crisi – qualcosa che Quiroga invece sostiene –, mentre hanno espresso un approccio più cauto del loro avversario riguardo all’apertura della produzione di litio agli investitori stranieri. Se si deve dare credito ai sondaggi, che però al primo turno hanno ampiamente dimostrato di essere inaffidabili, a pochi giorni dal ballottaggio, sarebbe Quiroga il nuovo presidente boliviano.








