
Due gli elementi che hanno permesso a Israele di portare a termine gli omicidi mirati degli esponenti di Hamas e Hezbollah, di attaccare l’Iran e colpire i leader di Ansrallah (Huthi) in Yemen: aeronautica e intelligence. In questi due campi, nessuno dei Paesi arabi può competere con Tel Aviv. L’assassinio a Teheran, nel luglio 2024, del leader di Hamas Ismail Haniyeh, e la strage dei cercapersone in Libano, sono solo due delle decine, forse centinaia, di esecuzioni compiute dallo Stato ebraico in sei Paesi arabi. Alla Palestina (sia Gaza sia Cisgiordania), Libano, Iran, Siria e Yemen, si è appena aggiunto il Qatar. E forse la Tunisia – Tel Aviv non ha ancora negato il suo coinvolgimento nell’attacco con droni a due delle navi della Global Sumud Flotilla.
Il Qatar non era mai stato colpito in precedenza: un Paese che coopera con gli Stati Uniti e ha un ruolo di primaria importanza nei negoziati tra Israele e Hamas. O per lo meno l’aveva, perché sembra impensabile, a questo punto, una ripresa delle trattative. Il presidente Trump, appena domenica scorsa, aveva annunciato in un post social di aver presentato un nuovo piano di pace, accolto da Tel Aviv. E aveva avvertito Hamas di accettarne i termini, perché non avrebbe avuto altre possibilità. È per questo motivo che i leader politici del movimento si erano riuniti martedì a Doha. Secondo indiscrezioni, si erano appena recati nella stanza della preghiera quando gli aerei israeliani hanno bombardato la sede della riunione. Solo così si sarebbero salvati.
Hamas non ha ancora fornito prove che Khalil al-Hayya, capo del consiglio direttivo del movimento, e gli altri, siano ancora in vita, ma alcune dichiarazioni di diplomatici e media israeliani confermerebbero questa ipotesi. Non c’è bisogno di molta fantasia per supporre una trappola ben congegnata da Tel Aviv e Washington. Il primo ministro Netanyahu ha dichiarato che la responsabilità dell’attacco è da attribuirsi esclusivamente a una scelta del suo governo. Trump ha detto di essere stato avvisato solamente quando gli aerei erano in volo, e di non avere fatto in tempo a contattare Doha. Davvero difficile immaginare uno scenario in cui Israele abbia potuto aggredire un Paese amico degli Usa, a trenta chilometri da una base militare americana (Al Udeid), senza aver ottenuto il benestare dell’alleato oltreoceano. Il vicepresidente degli Stati Uniti, J.D. Vance, ha dichiarato che Trump non era felice del raid, ma che l’uccisione dei membri di Hamas sarebbe una buona notizia.
Non è nemmeno da escludere che Doha sapesse. Il Paese arabo ha avuto per anni rapporti privilegiati, seppure segreti, con lo Stato ebraico. Tanto da dare il nome a uno scandalo che è giunto fino alla cerchia dei collaboratori più vicini a Netanyahu. Il cosiddetto “Qatargate” (vedi qui) è ancora al centro delle indagini degli investigatori israeliani. Secondo ciò che è emerso fino a questo momento, Doha avrebbe pagato circa dieci milioni di dollari, spalmati in diversi anni, affinché Israele lavorasse per migliorarne l’immagine. Soldi che sono finiti nelle tasche di importanti funzionari di Tel Aviv e in quelle dei consiglieri del premier. Yisrael Einhorn, un ex consigliere di Netanyahu, avrebbe ricevuto 45mila dollari al mese dal 2022 al 2024. Anche Jonatan Urich e Eli Feldstein, altri due aiutanti del premier, hanno ottenuto denaro. Feldstein è in prigione, accusato di coinvolgimento anche in un altro scandalo, soprannominato “BibiLeaks”, che coinvolge il premier.
In ogni caso, appare improbabile che gli Stati Uniti non abbiano avvisato il Paese arabo, rischiando l’accordo da 1,2 trilioni di dollari in finanziamenti negli Usa. Certo, dalle dichiarazioni pubbliche, la rabbia del Qatar sembra essere reale. Secondo il “Washington Post”, in agosto, il Mossad israeliano e la Casa Bianca hanno garantito al governo arabo che non avrebbero effettuato attacchi contro Hamas dentro i confini del Paese. D’altro canto, lo stesso giornale ha riferito che, negli ultimi giorni, sia Egitto sia Turchia hanno avvertito i leader palestinesi di aumentare i protocolli di sicurezza.
Non sono mancate le reazioni internazionali all’attentato israeliano. Come sempre, senza risposte concrete. Tant’è che il giorno dopo il bombardamento in Qatar, Tel Aviv ha attaccato lo Yemen, causando trentacinque vittime e più di cento feriti. Tutti i Paesi arabi, Qatar in testa, hanno condannato l’attacco, giudicandolo contrario a ogni legge internazionale. I loro rapporti con Israele erano sulla via della normalizzazione totale, specie nel Golfo. Gli Accordi di Abramo, fortemente voluti da Trump, hanno rappresentato una tra le più rilevanti scintille d’innesco dell’attacco armato di Hamas a Israele, il 7 ottobre 2023. È chiaro che sono i soldi a guidare i rapporti idilliaci Golfo-Usa, e dunque Tel Aviv; ma l’argomentazione “etica” utilizzata in Medio Oriente è che gli accordi possano costringere Israele a una contropartita. Ossia, alla rinuncia dell’annessione della Cisgiordania occupata, un’azione che porrebbe per sempre fine alla speranza di veder nascere uno Stato palestinese.
Le azioni illegali di occupazione, sfollamento, arresti, abbattimento, uccisioni, non si sono mai fermate nei territori occupati, ma agli Stati del Golfo, così come all’Egitto e alla Giordania, la cosa non sembrava preoccupare più di tanto. Però i piani ufficiali di annessione sono oggi in via di definizione, e il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, ha esortato Netanyahu a formalizzare la sovranità israeliana, dichiarando che Tel Aviv deve prendere “il massimo territorio e il minimo della popolazione” palestinese. Con l’obiettivo dichiarato di “rimuovere, una volta per tutte, uno Stato palestinese dall’agenda”.
Queste dichiarazioni rappresentano un problema reale per gli Emirati arabi uniti. La ministra degli Esteri e della Cooperazione internazionale, Lana Nusseibeh, ha dichiarato che l’annessione rappresenta una “linea rossa” per il suo Paese, tale da minare in maniera grave gli Accordi di Abramo. “Fin dall’inizio – ha dichiarato Nusseibeh – abbiamo visto gli accordi come un modo per consentire il nostro continuo sostegno al popolo palestinese e alla loro legittima aspirazione a uno Stato indipendente”.
Un giorno dopo l’attacco al Qatar, gli Emirati arabi hanno informato Israele che alle sue industrie sarà vietato partecipare all’appuntamento biennale del Dubai Airshow, una delle più grandi mostre aerospaziali e della difesa al mondo. Tel Aviv vi ha preso parte la prima volta nel 2021, dopo la firma degli Accordi di Abramo. Nel 2023, nonostante l’attacco di Hamas a Israele e i bombardamenti di quest’ultimo su Gaza, lo stand non fu negato, anche se rimase quasi deserto. Secondo il sito di notizie israeliano Ynet, il divieto è stato comunicato in risposta all’attacco ai leader di Hamas a Doha. Mercoledì 10 settembre, il presidente degli Emirati, Mohammed bin Zayed, è atterrato in Qatar per portare la propria solidarietà, dichiarando che l’azione di Tel Aviv rappresenta una minaccia per la pace e la sicurezza di tutta la regione.
L’Arabia saudita, per parte sua, ha denunciato il bombardamento, definendolo “un’aggressione criminale contro uno Stato fratello”. Il primo ministro, Mohammad bin Salman, ha affermato che il suo Paese sta “dispiegando tutte le sue capacità” per sostenere il Qatar. Anche l’Egitto ha preso una posizione chiara di condanna. I rapporti con Israele non erano così tesi da molto tempo. Il presidente, Abdel Fattah al-Sisi, teme che Tel Aviv possa decidere di aprire il valico di Rafah e spingere tutti i palestinesi di Gaza dentro il Paese. Per questo ha rafforzato la presenza militare nel Sinai.
Infine, Hamas. Dopo l’attacco a Doha, Einav Zangauker, madre di uno degli ostaggi ancora a Gaza, ha dichiarato che, con il bombardamento, Netanyahu ha probabilmente assassinato suo figlio. Ma il governo ha ormai chiarito che i prigionieri nella Striscia non sono una priorità. La guerra lo è. La pulizia etnica di Gaza, l’occupazione e “ridisegnare” il Medio Oriente. Secondo più letture, l’attacco alla leadership politica del movimento palestinese non fa che rafforzare l’ala armata. E potrebbe avere anche un altro effetto, forse inaspettato, sulla Cisgiordania. Anche qui sono presenti rappresentanti di Hamas, e molti sono ancora in vita. Un cambio degli equilibri potrebbe attribuire loro maggiore influenza, anche se sottoposti al massimo controllo da parte dei servizi di intelligence israeliani.