
“A Michele Emiliano e a Nichi Vendola mi legano stima e affetto sinceri, oltre che una storia comune di cui sono orgoglioso e che non rinnego. Ma io voglio essere un presidente libero, capace di assumermi fino in fondo la responsabilità delle scelte. Non voglio essere ostaggio delle decisioni di chi mi ha preceduto. La Puglia non ha bisogno di un presidente a metà”. Sono le parole con le quali Antonio Decaro, popolare ex sindaco di Bari, eurodeputato Pd forte di mezzo milione di preferenze, da mesi candidato in pectore alla presidenza della Puglia e favoritissimo in tutti i sondaggi, aveva messo in dubbio verso la fine di agosto la sua disponibilità ad accettare l’impegno. La vicenda è poi rientrata, con qualche strascico più che altro interno al Pd, dopo che Emiliano, tuttora in carica come presidente della giunta pugliese, ha fatto sapere di non gradire di essere l’unico a dover fare un passo indietro, stante la resistenza di Alleanza verdi-sinistra a rinunciare a Vendola nella lista per il Consiglio regionale. Per Avs non solo una questione di autonomia nelle sue scelte: in ballo, ovviamente, c’è anche il tema del superamento della soglia di sbarramento del 4%. Tuttavia, nonostante le apparenze, si tratta di un episodio che non è rappresentativo solo di una problematica locale, o interna agli equilibri, ma della stessa alleanza progressista che, nel 2027, potrebbe contrapporsi alle destre di governo.
Allargando per un attimo lo sguardo alle vicende che stanno accompagnando l’avvicinamento delle due coalizioni principali alle elezioni regionali previste alla spicciolata tra fine settembre e fine novembre (Calabria, Campania, Marche, Puglia, Toscana, Valle d’Aosta e Veneto) qualche elemento di riflessione più generale si può cogliere. Due i casi meritevoli di una citazione particolare. In Campania, per avere il via libera alla candidatura alla presidenza di Roberto Fico, tappa quasi obbligata nella costruzione della futura intesa nazionale Pd-5 Stelle-Avs, la segretaria democratica Elly Schlein è stata costretta a scendere a patti con il presidente uscente della Regione, Vincenzo De Luca. Affondata dalla Corte costituzionale la sua ambizione a rimanere a palazzo Santa Lucia per un terzo mandato, De Luca ha ottenuto, a quanto pare, la segreteria regionale del partito per suo figlio Piero, candidato unico al congresso campano annunciato dal commissario Antonio Misiani. Non solo: si prepara a dare battaglia sulle cariche da assessore per i suoi, sulle liste civiche a lui fedeli – ne vorrebbe presentare due – e sulle garanzie di “continuità” rispetto alla sua amministrazione. Oggi c’è allora chi loda il “realismo” della segretaria e chi non nasconde la delusione per le promesse mancate di rinnovamento.
Intanto, in Veneto, da mesi si discute del destino di un altro sconfitto della battaglia per il terzo mandato da presidente: il leghista Luca Zaia, che nell’ultima tornata delle regionali sfiorò l’80% dei consensi e in termini assoluti i due milioni di voti. Lui vorrebbe fare una sua lista personale, il leader della Lega Matteo Salvini, almeno a parole, difende l’idea. Gli alleati pare non gradiscano di doversi confrontare, nelle urne, col rischio di un nuovo plebiscito personale del presidente uscente, che ridimensionerebbe, e di molto, le percentuali dei partiti della coalizione. Nel frattempo Zaia, convinto avanguardista dell’autonomia differenziata, si batte per una nuova bandiera: Venezia città-Stato. Con poteri (e ovviamente fondi) paragonabili a quelli che potrebbero essere assegnati in futuro a Roma Capitale. Col retropensiero di potersi accomodare lui stesso in laguna su una nuova poltrona da doge adeguata al suo rango.
Quella che sembra di poter intravedere in tutte queste vicende è una trama comune, il filo rosso che lega i poteri di figure locali che gestiscono grandi risorse finanziarie e governano comparti strategici come la sanità, l’agricoltura, il turismo; figure divenute troppo influenti per rimanere confinate nell’ambito regionale, insofferenti alle limitazioni che la legge e i giudici della Consulta hanno imposto al perpetuarsi del loro potere. Cacicchi, capibastone, per citare una definizione utilizzata a suo tempo da Schlein a proposito delle cordate di potere interne al Pd, che costringono i partiti e i leader nazionali a lunghi negoziati e faticosi compromessi su basi politiche non sempre di facile lettura. Ma come si è arrivati a questa situazione?
In principio era il tatarellum, la legge elettorale del 1995 che impose la svolta presidenzialista alle regioni italiane a statuto ordinario. La norma onora il nome del suo promotore, Pinuccio Tatarella, esponente di rilievo della nomenclatura di Alleanza nazionale, in quanto tale considerato dalla pubblicistica nazionale, a partire dalla cosiddetta svolta di Fiuggi, un postfascista (si diceva così allora), mentre in precedenza, come dirigente del Movimento sociale italiano era presumibilmente sfornito del titolo di “post”. In ogni caso, coerentemente votato a un riequilibrio presidenzialista, se non autoritario, degli assetti democratico-parlamentari disegnati dalla Costituzione antifascista.
Non era ancora maturo il tempo per il cosiddetto “premierato” caro a Giorgia Meloni, ma la riforma regionale voluta dalla destra – come del resto quella sull’elezione diretta dei sindaci tanto amata dall’area progressista-ulivista – ha certamente centrato l’obiettivo di un’assuefazione culturale e psicologica dell’elettorato a forme di crescente personalizzazione del potere. Poi è arrivata la sciagurata riforma costituzionale del Titolo V, promossa dal centrosinistra, che ha portato con sé un’espansione dei poteri delle regioni, e aperto la strada all’autonomia differenziata, ovvero al secessionismo soft dei leghisti, e propiziato una crescita tendenzialmente illimitata delle ambizioni dei presidenti, di alcuni in particolare. Non è un caso che la pomposa – e costituzionalmente infondata – definizione di “governatore” sia entrata nel lessico comune, non solo per responsabilità della categoria dei giornalisti, amanti della brevità. Il citato, stucchevole spettacolo estivo delle trattative infinite, dei moniti, degli ultimatum e “penultimatum” in alcune regioni è figlio anche di questa apparente distorsione degli equilibri nella democrazia repubblicana.
Per tornare a Decaro: chi scrive è testimone – da cronista – dello sconcerto che ha attraversato anche le file del Pd per la durezza dei proclami e soprattutto dei rilanci di Decaro su Vendola, anche dopo aver ottenuto la rinuncia di Emiliano alla candidatura da “frate semplice” (parole sue). Anche nell’area cosiddetta riformista, nella quale si riconoscono le varie anime liberali, ex democristiane, ex renziane, ultra-atlantiste che vedrebbero di buon occhio Decaro come alternativa interna a Elly Schlein, non è mancato chi lo ha spinto a moderare i toni dello scontro e accettare di candidarsi in Puglia. Cosa voleva dire la sua accorata di essere lasciato “libero”, pur proclamata in buona fede di fronte al rischio di ritrovarsi in Consiglio regionale qualche presenza politicamente ingombrante? Libero, cioè non vincolato, non limitato: assoluto, sovrano.
Eppure, è difficile comprendere i timori espressi dall’ex sindaco barese. Sono rarissimi i casi di crisi che abbiano portato alla caduta delle giunte regionali da quando il presidente è eletto direttamente dal popolo. Al più, c’è qualche caso di interruzione della legislatura regionale dovuta a vicende extra-istituzionali, come inchieste giudiziarie o veri e propri scandali che abbiano investito la persona del presidente. In questo scenario, la domanda che forse varrebbe la pena di porsi, nel campo democratico e progressista, è se non si sia andati troppo avanti nel coltivare questa idea delle “mani libere” del sindaco, del presidente regionale, e domani, se passasse la riforma costituzionale, del presidente del Consiglio divenuto pienamente “premier” (o anche solo se venisse approvata una riforma elettorale a quella ispirata, che prevedesse l’esplicita indicazione preventiva del capo del governo). Sembra il momento di domandarsi se non si sia giunti a una situazione come quella che i manuali di diritto pubblico descrivono per le vecchie monarchie elettive (una è tuttora in attività ed elegge il romano pontefice): una carica che è sì elettiva ma che, al contrario di quelle democratiche, non è rappresentativa. Superato il momento dell’investitura (popolare, nel caso dei presidenti di regione) ci si ritrova ormai con uomini e donne forti al comando che tendono a rifiutare la dialettica politica, la collegialità, in buona sostanza il pluralismo: è il frutto malato del maggioritario. In quale modo si può risalire questa corrente? Potrebbe essere un utile spunto per il dibattito almeno a sinistra.