
Prosegue senza respiro l’attacco israeliano a Gaza City. Il centro urbano della Striscia ospita più di un milione di persone. Diverse decine di migliaia sono già andate via, cacciate dalla violenza dei bombardamenti e dagli ordini di evacuazione. Settantamila secondo Tel Aviv. Molte delle persone che vivono nella città sono state sfollate più volte: dodici, quattordici, c’è chi neanche ricorda più il numero. Da quando Israele ha lanciato l’operazione “Carri di Gedeone II”, decine di migliaia di riservisti israeliani hanno ricevuto l’ordine di richiamo. Ma gli attacchi sono cominciati ben prima del lancio ufficiale di quella che potrebbe essere la definitiva – e più letale – manovra di occupazione israeliana. Nel giro di poco più di due settimane, le immagini satellitari di Planet Lab già mostravano lo sfollamento e la devastazione. Ed era solo la metà di agosto. L’obiettivo del governo è l’appiattimento e l’occupazione della città.
Secondo i piani militari, la velocità dell’operazione dipenderà dai tempi della deportazione della popolazione. Ma mandare via la gente, che è stata cacciata per quasi due anni con la promessa di “zone umanitarie” mai rinvenute, può essere complicato. Non a caso l’esercito ha previsto che circa il 20% dei palestinesi rimarrà a Gaza City. Duecentomila persone pronte ad affrontare la morte. Perché stanche di scappare, consapevoli che un luogo sicuro non esiste, o più spesso perché impossibilitate a muoversi.
Quando l’esercito ordina di andare via perché agirà “con grande forza”, non si preoccupa di chi rimane dietro. Degli anziani che non possono camminare (trovare un mezzo di trasporto è complicato ed estremamente costoso), dei malati, dei bambini rimasti senza genitori, dei pazienti legati alle apparecchiature mediche. Non si cura del fatto che le strade siano distrutte, che l’acqua non si trovi, che non ci sia cibo. Anzi, il premier israeliano Benyamin Netanyahu ha minacciato la popolazione civile: “Ascoltatemi attentamente: siete stati avvertiti; andatevene da lì!”. Accompagnato dal suo ministro della Difesa, che ormai annuncia quotidianamente l’inferno su Gaza. Netanyahu ha anche avvisato che il peggio deve ancora venire e che le truppe si stanno ammassando per lanciare l’occupazione di terra.
Intanto, l’aeronautica sta abbattendo uno per uno tutti gli edifici più alti di Gaza City. E ce n’erano molti. Le “torri” le chiamano i palestinesi. All’interno uffici, centri commerciali, negozi e tanti appartamenti. Dopo gli ordini di sfollamento del nord, quegli edifici si sono riempiti di profughi. Intere famiglie che conservavano nelle stanze tutto ciò che rimaneva loro. Quando l’esercito avvisa, solitamente con delle telefonate e con i volantini, le persone sanno di avere pochi minuti per recuperare le cose più importanti. I video hanno mostrato il lancio disperato di vestiti e anche di materassi dai piani alti dei grattacieli. Poi si allontanano e aspettano l’attacco. La precisione dei missili israeliani, che colpiscono le fondamenta da un lato all’altro della struttura, pone più di un dubbio sulle uccisioni “casuali” di civili. Israele giustifica gli abbattimenti dichiarando che le strutture erano utilizzate da Hamas, per controllare i movimenti dei soldati (con videocamere), e come magazzino per gli esplosivi. Ma nei video degli attacchi non si vedono esplosioni secondarie. Hamas ha sempre negato le accuse e la protezione civile di Gaza ha dichiarato che Tel Aviv decide intenzionalmente di distruggere le strutture, che sono circondate dalle tende dei profughi, per causare lo sfollamento della popolazione. È il modo più sicuro e veloce per mandare via chi non vuole andarsene: missili, distruzione, morte. Centinaia di rifugi per i profughi sono stati distrutti nelle deflagrazioni, e le minacce di annientamento si ripetono sempre più aggressive. Insieme alle promesse di verdeggianti “zone umanitarie”, in cui sarà possibile vivere in benessere e dignità.
Il portavoce in lingua araba dell’esercito israeliano consiglia fraternamente ai palestinesi della Striscia di “cogliere l’occasione” di trasferirsi a sud, come hanno fatto già tantissime persone in queste ultime settimane. E, per l’occorrenza, Tel Aviv ha annunciato la nascita di una nuova area umanitaria in cui il governo farà arrivare tende, cibo e medicine. Tutte cose che tiene bloccate da marzo nei depositi, impedendo che vengano consegnate alla popolazione. Sono stati promessi anche nuovi ospedali da campo e una gestione coordinata con le Nazioni Unite. E cibo. Secondo i programmi, la fondazione israelo-statunitense, a cui Netanyahu ha consegnato l’appalto dei beni umanitari, dovrebbe aprire altri due centri. Quattro aree di smistamento di cibo per due milioni di palestinesi. Ma, al momento, i profughi che arrivano ad al-Mawasi non trovano nulla di tutto ciò. La zona è una tendopoli piena zeppa di persone. Le tende sono attaccate le une alle altre, non ci sono servizi, gli ospedali da campo non bastano, non ci sono bagni, l’acqua è lontana, il cibo non basta. Si diffondono malattie che è impossibile contenere senza pulizia né medicinali.
Israele racconta di accoglienza, ma in realtà pensa alla deportazione. Lo ha detto senza timore di apparire comico Netanyahu, quando ha parlato di “diritto a scegliere il proprio luogo di residenza” per la popolazione civile della Striscia. Per essere precisi, in un’intervista ha dichiarato che aprirebbe immediatamente il valico di Rafah per far fuoriuscire liberamente i palestinesi verso l’Egitto. Ma il suo gesto compassionevole sarebbe inutile – ha aggiunto il premier – perché il Cairo prontamente impedirebbe l’accesso nei suoi confini. Cosa che il presidente al-Sisi ha immediatamente confermato. Incassando l’accusa israeliana di volere “imprigionare i residenti di Gaza”. Il riferimento di Netanyahu fa pensare che, al momento, la ricerca disperata di Paesi che accettino di accogliere i gazawi, non ha dato i frutti sperati. Le voci – anche se mai confermate – parlano di contatti continui con Stati africani come Sud Sudan, Libia, Somaliland, Uganda. E con l’Indonesia. Il presidente Trump sta promettendo cielo e terra ai rispettivi governi. Aiutando così l’alleato e preparando la via al suo piano della “Riviera di Gaza”, piena di soldi e vuota di palestinesi.
Trump gioca su due tavoli: da un lato, sostiene Tel Aviv in ogni sua scelta di guerra e, dall’altro, annuncia un imminente accordo con Hamas. È da giugno che parla di un cessate il fuoco imminente. Questa volta, ha scritto sul suo Truth Social di avere redatto una proposta che Israele ha già accettato. Ordinando a Hamas di fare lo stesso perché questo sarà il suo “ultimo avviso”. In realtà, però, in Israele nessuno ha ammesso di avere effettivamente sottoscritto il piano. Netanyahu ha detto che lo prenderà “molto seriamente” in considerazione. Tel Aviv dovrebbe ancora dare una risposta formale alla proposta presentata dai negoziatori Egitto e Qatar, e accettata dal gruppo palestinese più di venti giorni fa. Hamas ha dichiarato di avere ricevuto il piano Trump, che vorrebbe discuterne immediatamente e che è disposta a rilasciare tutti gli ostaggi insieme. In cambio di una dichiarazione chiara sulla fine della guerra e sul ritiro di Israele, con la formazione di un governo di tecnocrati palestinesi.
Intanto, Washington attacca anche l’Autorità nazionale palestinese (Anp), bloccando i visti dei suoi rappresentanti in occasione dell’assemblea generale dell’Onu. Un incontro particolarmente importante, perché alcuni Paesi, tra cui Francia, Belgio e Canada, riconosceranno ufficialmente lo Stato palestinese. Annuncio, questo, che ha causato una risposta stizzita di Tel Aviv, che ne ha approfittato per lanciare l’annessione di fatto della Cisgiordania occupata. Ufficialmente, una risposta alle mosse internazionali. Nella realtà, un traguardo per cui esercito e coloni stanno lavorando da decine di anni, e che rende impossibile la nascita di uno Stato palestinese. Il quotidiano israeliano “Haaretz” aveva avvisato che la decisione avrebbe condannato per sempre israeliani e palestinesi a una spirale di violenza senza fine. Lunedì 8 settembre, nella Gerusalemme est occupata, in un attacco armato a un autobus, sono state uccise sei persone e altre undici sono rimaste ferite. Israele ha dichiarato che gli uomini armati che hanno colpito i mezzi sono palestinesi e l’esercito ha immediatamente lanciato rastrellamenti in Cisgiordania. A Jenin i soldati hanno ucciso due ragazzini di quattordici anni. E insieme con gli attacchi operati a Gaza e in Cisgiordania, Israele ha trovato il tempo e le forze, nello stesso giorno, di bombardare anche Libano e Siria.