
Nell’intervista a “Time”, che per Giorgia Meloni suona come un riconoscimento internazionale, la presidente del Consiglio a un certo punto si rivolge al suo interlocutore e gli domanda qualcosa come: “Ma ti sembra fascista tutto questo?”. La risposta possiamo darla noi, ed è semplice: sì. Non siamo più, infatti, nel Ventesimo secolo, e una storia politica cominciata nel lungo Novecento andrà pure aggiornata. Lo si può fare di più o di meno. Meloni l’ha aggiornata il minimo indispensabile. Come abbiamo scritto più volte su “terzogiornale”, il nazional-populismo che i postfascisti hanno tirato fuori in tempi recenti, fa parte da sempre del loro Dna. L’argentino Perón (per dirne una) fu già un innovatore: andò al potere due volte per via strettamente elettorale all’interno di un quadro presidenzialista, un tipo di sistema politico che, da allora, è sempre stato un punto di riferimento per il neofascismo. D’altronde lo stesso Mussolini, prima di distruggere quasi totalmente il debole Stato liberale per instaurare la sua dittatura, mosse i primi passi con un governo di coalizione benedetto dai conservatori e dalla monarchia. Il fascismo, si sa, è un camaleonte.
Nel quadro attuale, Meloni sa bene che bisogna inventarsene qualche altra ancora – ma comunque all’interno di una storia ben nota. Il punto su cui batte, nell’intervista, è allora quello identitario: la globalizzazione ha fallito, bisogna ritornare alla sovranità degli Stati nazionali e difendere la civiltà occidentale. Sono slogan che – se significano qualcosa – si riferiscono al fatto che, tra non molto, i Paesi europei avranno subìto un’inevitabile grande trasformazione in virtù delle migrazioni, e saranno un’altra cosa rispetto al passato novecentesco. Secondo noi è un bene. Vederlo come un male ha per conseguenza la paura, la cosiddetta difesa dei confini, e quant’altro: insomma, tutto ciò su cui il governo italiano si sta miserabilmente impegnando.
“Globalizzazione” – sia detto in generale – è un termine molto poco preciso. Che cosa ci si sarebbe aspettato da quella globalizzazione che sarebbe fallita? Alcuni progressisti un tempo ottimisti (come il nostro Pierluigi Bersani) se ne aspettavano un benessere diffuso. Ma si illudevano: perché, nella globalizzazione, non c’è mai stato altro se non espansionismo economico a vantaggio soprattutto di pochi, con qualche beneficio minore per i cosiddetti Paesi in via di sviluppo, che da un sistema di libero scambio avevano qualcosa da guadagnare per le loro esportazioni. Ma il miraggio si è dissolto, i vantaggi della globalizzazione sono diventati gli svantaggi della deglobalizzazione (con Trump, in particolare); e il ritorno, sia pure relativo, agli Stati nazionali non è neppure una prospettiva, è qualcosa che sta già avvenendo, a dimostrazione che la storia può conoscere dei cicli e dei contro-cicli.
Ciò che però la globalizzazione non è mai stata, neanche alla lontana, è un sinonimo di omologazione culturale. Al contrario: nel suo ambito ci sono sempre stati, fin dagli anni Ottanta e Novanta, dei ritorni di “fiamma” (è il caso di usare questa parola-simbolo dell’estrema destra) identitari, che solo chi preferiva non vedere non vedeva. L’islam politico è uno di questi.
Dunque di cosa parla Meloni quando parla di identità europea? In un certo senso di qualcosa che semplicemente non esiste, essendo questa “identità” fatta non soltanto di tradizioni culturali differenti, ma anche dell’intreccio con una per nulla breve storia coloniale che, in Paesi come la Francia, ha modificato da tempo la “nazione” (si consideri, per esempio, che la Francia è prima in Europa per numero di musulmani). In Italia è appena un poco diverso, anche perché il nostro Paese non ha mai fatto i conti con il proprio colonialismo. E quella dell’immigrazione di massa dall’Africa può apparirgli soltanto uno strano scherzo del destino.
D’altra parte, però, proprio l’idea che bisogna difendersi da qualcosa, che bisogna difendere la civiltà, è un vecchio Leitmotiv neofascista. Un ricordo personale. Nel 1970 o nel ’71, sui muri del liceo che frequentavo, comparivano spesso delle scritte in vernice nera, come “Dux” e simili. La scuola era spesso oggetto di violenti attacchi fascisti, per via del suo vivace movimento studentesco. Un giorno vidi uno slogan che mi colpì e il cui contenuto, a tutta prima, mi parve indecifrabile: “Il globalismo uccide”. Si consideri che, in quegli anni, né “globalizzazione” né “globalismo” erano nozioni di uso corrente. Ma poi compresi: con globalismo si indicava il dominio degli Stati Uniti e dell’Unione sovietica, messi insieme, che soffocavano le aspirazioni nazionali dei diversi popoli. Era un’idea da neofascismo particolarmente estremo e anche, a suo modo, raffinato, perché non si fermava a un anticomunismo unilaterale.
Nella realtà tutto era differente. Con la “strategia della tensione”, cioè delle stragi e degli attentati a cui negli anni Settanta prese attivamente parte, collaborando con gli elementi deviati dello Stato, e con la stabilizzazione politica centrista che ne derivò come conseguenza, il fascismo faceva sempre il suo solito gioco a favore dei potenti. Ma almeno i giovani militanti, quelli di quando Meloni non era ancora nata, potevano illudersi di non essere pedine al servizio del potere ma niente meno che combattenti “antiglobalisti”.