Dalla caduta del Muro di Berlino, e dalla fine degli aiuti sovietici, i governi che si sono succeduti all’Avana sono riusciti fin qui a evitare il crollo del sistema politico ed economico; ma la crisi cui assistiamo oggi è più dura delle altre e sarà più complicato uscirne. È senza dubbio la peggiore dal 1959, anno della rivoluzione. Di fatto, nella patria dei fratelli Castro e degli altri rivoluzionari che nel 1956 iniziarono la lotta armata contro il dittatore Fulgencio Batista, la gente è allo stremo. Il Paese con l’assistenza sanitaria migliore del continente, e in cui la mortalità infantile è più o meno paragonabile a quella del ricco Occidente, vede aprirsi uno scenario africano all’orizzonte.
È lo stesso governo comunista, di solito restio ad ammettere le difficoltà del Paese, a sostenere, per bocca del ministro dell’Economia, Alejandro Gil Fernández, e di quello dell’Energia, Vicente de la O Levy, la gravità della situazione, con l’invito ai cubani e alle cubane a fare ulteriori sacrifici. Nell’isola manca praticamente tutto o, a volere adoperare un eufemismo, la disponibilità dei beni di prima necessità è fortemente ridimensionata. La produzione di carne suina è crollata dalle duecento tonnellate del 2017 alle sedici del 2022. Sono molto più frequenti – dieci ore al giorno – gli apagones, come furono chiamati i black-out durante il período especial, quello successivo alla fine degli aiuti sovietici. Ci sono meno medicinali, meno disponibilità di mezzi pubblici, a causa della carenza di carburante, e perché è rimasto in funzione solo un impianto di raffinazione nella capitale. Incredibile il problema delle abitazioni: le palazzine ormai non le controlla più nessuno, cadono a pezzi, e recentemente due persone sono morte sotto le macerie.
Senza proseguire in questa drammatica lista delle gravissime criticità che stanno trasformando Cuba in uno dei tanti Paesi del Sud del mondo, alle prese con povertà e sottosviluppo, è utile ricordare come si sia arrivati a questa situazione. Tre i fattori: in primo luogo, l’embargo posto dagli Stati Uniti, il cosiddetto bloqueo, che dal 1962, ha reso impossibile ogni contatto economico e politico con il potente vicino nordamericano. Una decisione motivata dall’odio verso un regime che aveva osato sconfiggere l’imperialismo – malgrado, in un primissimo momento, gli Stati Uniti non avessero mostrato pregiudizi nei confronti della rivoluzione, cambiando però poi rapidamente idea quando il governo cubano cominciò ad attuare le nazionalizzazioni e la riforma agraria, che tolse i latifondi dalle mani dei proprietari terrieri legati a Washington. Gli aiuti sovietici garantirono, per trentadue anni, un livello di vita accettabile alla popolazione dell’isola caraibica. E tuttavia, nei sessant’anni dall’inizio dell’embargo, ci sono stati danni per quasi 160mila milioni di dollari – ogni mese cinquemila milioni di dollari – con conseguenze nefaste per l’economia dell’isola. Si è calcolato che, senza l’embargo, tra il 2022 e il 2023, subito dopo la pandemia che ha pesato sull’economia di tutto il pianeta, il Pil cubano sarebbe cresciuto di almeno il 9%.
A stringere il cappio intorno al collo di Cuba, il 12 marzo 1996, c’era stato il Cuban Liberty and Democratic Solidarity Act (Libertad), noto anche come Helms-Burton Act (dal nome dei repubblicani Jesse Helms e Dan Burton), il quale fissò la dottrina che affermava, indipendentemente dal diritto internazionale, la possibilità di sanzionare qualsiasi Paese commerciasse con Cuba, tenendo così il mondo in ostaggio di quelle sanzioni. Una speranza di normalizzazione dei rapporti tra Cuba e gli Stati Uniti si aprì nel marzo 2016, quando per la prima volta un presidente statunitense, Barak Obama, si recò nell’isola. Un evento clamoroso, che qualcuno paragonò alla caduta di un piccolo Muro di Berlino. Ma in seguito, con la vittoria di Donald Trump, quella iniziale apertura fu immediatamente cancellata, incredibilmente inserendo l’Avana tra le capitali che fomentano il terrorismo. Con il ritorno dei democratici alla Casa Bianca con Biden, si sono riaperti degli spiragli, ma non tali da supportare l’economia dell’isola, così da spingere il presidente messicano Andrés Manuel López Obrador – che nel frattempo ha inviato due gigantesche petroliere all’Avana per un totale di settantasette milioni di dollari – a sollecitare la Casa Bianca in direzione di una sospensione delle sanzioni contro il Venezuela e Cuba, nell’ambito di uno stanziamento di venti miliardi di dollari per aiutare i Paesi più poveri dell’America latina.
Lo sviluppo delle relazioni tra i due eterni nemici è oggi legato al risultato delle prossime presidenziali americane. Buio pesto nel caso vincesse di nuovo l’organizzatore dell’assalto a Capitol Hill. “La politica di Washington è ingiusta e ingiustificata”, ha commentato il viceministro degli Esteri cubano, Elio Rodríguez Perdomo, in un’intervista rilasciata a “Newsweek”, e riportata dal sito dell’Università di Padova, “Bo Live UniPd”. “È la nazione più potente della terra – ha aggiunto – contro un Paese molto piccolo, che non ha alcuna disputa con nessun altro Paese in tutto il mondo. E il presidente Biden potrebbe fare passi immediati, anche senza l’autorizzazione del Congresso, per migliorare la situazione”.
Sono preoccupazioni – è questo il secondo punto – che non sembrano per nulla in cima ai pensieri dell’Europa, il cui rapporto con l’isola è sempre stato controverso. Dopo la fine dell’era sovietica, è stata la Spagna il principale interlocutore economico, che a politiche di chiusura durante i governi dei popolari ne ha alternate altre di grande collaborazione durante i governi socialisti. Il 2 dicembre del 2006 fu assunta, dal Consiglio dell’Unione europea, una posizione comune secondo cui ogni aiuto o rapporto di cooperazione è condizionato allo sviluppo della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Ma questa pretesa appare ridicola, se consideriamo che l’Europa ha regolari relazioni con regimi come quello egiziano (responsabile, tra i tanti crimini, della morte di un nostro connazionale). Non lascia ben sperare il voto del parlamento europeo dell’estate 2023 su una risoluzione contro Cuba incentrata, di nuovo, sulla retorica dei diritti umani, con 359 voti a favore, 226 contrari – tra questi, una parte dei socialisti che si sono spaccati – e 50 astensioni, che chiedeva formalmente sanzioni contro i “responsabili di violazioni dei diritti umani”, tra cui il presidente Miguel Díaz-Canel.
Tuttavia, mettendo da parte le strumentalizzazioni, su questo tema i problemi non mancano. Spesso, ed è questo un altro aspetto del problema, il governo è incapace di dialogare con una popolazione allo stremo. Ci sono anacronistiche richieste di fiducia nella “rivoluzione”, mentre piovono le solite accuse contro i “nemici della rivoluzione”. Anche se recentemente non sono mancati approcci diversi da parte delle autorità, come nella città di Santiago: sarebbe questa la strada da battere per mantenere il consenso necessario al fine di evitare il baratro. Bisogna “trovare forme politiche per gestire la situazione – sostiene, riportato da “il manifesto”, il gruppo editoriale di “La joven Cuba” –, una di queste è riconoscere con trasparenza gli errori di politica interna che hanno indotto una parte della popolazione alla protesta di strada come unica risorsa per far sentire la propria voce”.
Non può mancare, infine, un cenno alla caotica instabilità geopolitica nella quale Cuba è fatalmente inserita. Recentemente, il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, si è recato all’Avana. Negli incontri con Díaz-Canel e con il ministro degli Esteri, Bruno Rodríguez Parrilla, è stata ribadita la volontà di collaborazione e cooperazione che, in termini concreti, significa petrolio. Cuba, del resto, non ha mai nascosto le ambizioni di entrare nei Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica). Anche i rapporti con l’India sono in crescita, e il commercio totale è aumentato più di due volte tra il 2018-19 e il 2022-2023, passando da 38,81 milioni di dollari a 83,91 milioni di dollari. L’agricoltura, l’edilizia, la sanità, i trasporti, l’alimentazione e l’industria leggera, oltre che la costruzione di infrastrutture, caratterizzano inoltre la cooperazione economica tra Cuba e la Cina, sebbene il progetto, poi smentito, della costruzione di una base cinese a Cuba di spionaggio e addestramento militare, avesse creato allarme negli Stati Uniti.
Da questa lunga e dolorosa storia si evince una cosa sola: l’Occidente, in primo luogo gli Stati Uniti, ha abbandonato Cuba consegnandola, sessant’anni fa, all’Unione sovietica, e ora, nel pieno di un nuovo scontro tra Occidente e Oriente, alle altre potenze del pianeta. Pretendendo, nello stesso tempo, un suo sviluppo democratico, che non si capisce con quali interlocutori e finanziamenti dovrebbe mai avvenire. Non resta che sperare che l’aiuto dei “cattivi” della terra contribuisca a sottrarre l’isola all’indigenza, favorendo nel contempo un atteggiamento del suo governo più pragmatico, meno legato a slogan e proclami di un’epoca ormai trascorsa.