Secondo i dati del Consiglio nazionale elettorale, relativi al referendum consultivo non vincolante di domenica 3 dicembre, 10.554.320 venezuelani – dei 20,7 milioni abilitati – si sono espressi a favore della creazione di un nuovo Stato nella zona di Esequibo, un territorio oggetto di disputa con la confinante Guyana, e hanno chiesto che la regione sia annessa al Venezuela. I voti favorevoli sono stati più del 95%, mentre l’affluenza è stata vicina al 50%. Se non si tratta di un vero e proprio flop per Maduro, che puntava a una partecipazione travolgente, poco ci manca.
Stiamo parlando di una vasta zona, poco meno di 160.000 chilometri quadrati, che occupa quasi il 70% del territorio della Guyana, e dove vive un ottavo della sua popolazione, che diventerebbe venezuelana qualora l’esito del referendum dovesse avere un seguito. Ricca di petrolio, oro, diamanti, mica, bauxite, manganese, uranio, gas naturale, acqua dolce, energia idroelettrica, foreste, biodiversità, pesca e turismo. È presto per dire se l’esito referendario porterà a una nuova trattativa o a un inasprimento dello scontro in atto con la Guyana, la cui popolazione ha vissuto con preoccupazione il voto di domenica. O se il tutto si ridurrà a espediente propagandistico in mano al governo.
Sta di fatto che migliaia di guyanesi hanno formato domenica catene umane, chiamate “cerchi di unione”, per mostrare il loro attaccamento alla regione. Molti indossavano magliette con frasi come “L’Esequibo appartiene alla Guyana”, e agitavano le bandiere nazionali. Il presidente Irfaan Ali, che ha denunciato il referendum come “una minaccia” alla pace in America latina e nei Caraibi, ha detto ai guyanesi che non avevano “nulla da temere”. “Stiamo lavorando instancabilmente per garantire che i nostri confini rimangano intatti e che la popolazione e il nostro Paese rimangano al sicuro”, ha detto in una trasmissione su Facebook.
Dal canto suo, il presidente venezuelano Nicolás Maduro, uno dei primi a votare domenica, dopo avere appreso i risultati, ha annunciato una nuova tappa nella disputa territoriale con la Guyana: “Oggi il popolo ha parlato duro, forte e chiaro e inizieremo una nuova tappa, potente, perché portiamo il mandato del popolo, portiamo la voce del popolo”, ha detto il presidente, davanti alla folla festeggiante dei suoi sostenitori. Ma sia gli analisti politici sia i leader dell’opposizione concordano sul fatto che si tratti di una strategia per raccogliere il sostegno della popolazione, prima delle elezioni presidenziali del 2024. “Il governo sta tenendo il referendum per ragioni interne (…). Ha bisogno di testare la sua macchina elettorale”, aveva detto alla vigilia della consultazione Benigno Alarcón, direttore del Centro di studi politici dell’Università cattolica Andrés Bello di Caracas. Mentre il presidente del Brasile, Luiz Inácio Lula da Silva, da Dubai ha affermato che si aspetta “senso comune” dal Venezuela e dalla Guyana per risolvere la tensione tra i due Paesi. Anche se, la settimana scorsa, Brasilia ha intensificato le “azioni difensive” lungo il confine settentrionale, nel mezzo della disputa territoriale.
Erano cinque le domande a cui gli elettori dovevano rispondere, tra cui quella che negava qualsiasi ruolo alla Corte internazionale di giustizia – organismo dell’Onu – nello stabilire a quale dei due Paesi appartenga il territorio conteso. Solo venerdì scorso l’Aia aveva rivendicato a sé ogni decisione in merito, chiesto che la consultazione fosse cancellata e che il governo di Caracas evitasse qualsiasi azione che modificasse il contenzioso in atto. Quella dell’Esequibo è una vicenda che si trascina da tempo immemorabile, almeno dal 1899. Ma è tornata prepotentemente di attualità da quando ExxonMobil ha scoperto, nel 2015, l’esistenza di giacimenti di petrolio in acque contese, le cui riserve di greggio accertate hanno cominciato a far gola al governo venezuelano. È stato il segretario generale dell’Onu, António Guterres, a decidere, nel 2018, di sottoporre il caso alla Corte internazionale di giustizia chiamandola a pronunciarsi sulla validità del lodo del 1899. La Guyana aveva allora accettato la decisione presentando un’istanza alla Corte internazionale, con la richiesta di confermare la validità del lodo e di dichiarare la sovranità della Guyana sull’Esequibo. Il Venezuela, invece, aveva respinto la decisione dell’Onu e rifiutato di partecipare alla causa davanti alla Corte dell’Aia, sostenendo che il tribunale non aveva giurisdizione sul caso.
Caracas sostiene, infatti, che il fiume Esequibo è il confine naturale, e che il territorio conteso farebbe parte del Venezuela fin dal 1777, quando era colonia della Spagna. Si appella anche all’accordo di Ginevra, firmato nel 1966, prima dell’indipendenza della Guyana dal Regno Unito, che poneva le basi per una soluzione negoziata e annullava il lodo del 1899, che aveva definito i confini attuali. Nel settembre di quest’anno, l’Assemblea nazionale, a maggioranza chavista, ha convocato un referendum per chiedere ai venezuelani se sostengono la rivendicazione sull’Esequibo e se rifiutano la giurisdizione della Corte internazionale.
Ma le comunicazioni del Consiglio nazionale elettorale, riguardo ai risultati, sono apparse lacunose e poco trasparenti, mancando per esempio il numero degli astenuti. Perciò sembra chiaro come il referendum di domenica si collochi nella delicata partita che il presidente Maduro sta giocando con l’opposizione, in vista delle elezioni che il recente accordo delle Barbados ha finalmente fissato per il 2024; e come possa essere una prova di forza messa in atto dal governo per ridimensionare il risultato delle primarie dell’opposizione che, pur tra infinite difficoltà e boicottaggi, si sono svolte lo scorso 22 ottobre. Il ricorso alle urne, da parte dell’opposizione, aveva premiato María Corina Machado, con più del 90% dei voti espressi in una consultazione che si è tenuta simultaneamente in Venezuela e in altri ventotto Paesi in cui sono presenti cittadini venezuelani, e a cui si stima che abbiano partecipato complessivamente più di due milioni di persone. La performance di Machado, che appartiene all’ala più radicale dell’opposizione ed è fautrice della liberalizzazione dell’economia del Paese e della privatizzazione delle sue aziende statali, rappresenta la prima grande vittoria dell’opposizione dopo anni di fallimenti e divisioni, essendo riuscita a scegliere un candidato capace di realizzare l’unità. Per le sue posizioni politiche e per il peso che ha saputo conquistarsi, non è certo una rivale gradita al chavismo – tanto più che nei sondaggi supera in popolarità lo stesso Maduro.
Il passaggio referendario pare quindi solo l’ultimo capitolo del lungo braccio di ferro la cui posta sono le prossime elezioni presidenziali: un tira e molla che ha visto protagonisti il governo di Caracas, l’opposizione venezuelana, l’amministrazione Biden e anche l’Unione europea, che recentemente ha deciso di prolungare le sanzioni che mantiene dal 2017, pur avendo riconosciuto i piccoli passi compiuti da Maduro. Va letta in tal senso, infatti, la decisione europea di ridiscutere la sua posizione riguardo il mantenimento delle sanzioni tra sei mesi, e non tra un anno, come di solito avveniva. Un incentivo, da parte dell’Unione, per il governo chavista, affinché proceda più intensamente sulla strada verso una normalizzazione dei rapporti con l’opposizione.
Il risultato politico che l’esecutivo venezuelano si riprometteva di ottenere, col voto referendario, apparirà più chiaro se si tiene conto che l’opposizione non ha dato indicazioni univoche su come comportarsi, andando in ordine sparso. In mancanza di una voce forte sulla questione, da parte dell’opposizione, l’apparato propagandistico governativo ha fatto la parte del leone, spingendo con ogni mezzo affinché gli elettori non disertassero le urne, facendo appello al patriottismo in una battaglia che, con tutta probabilità, diventerà uno dei temi principali della prossima campagna elettorale. Alla fin fine, si è trattato di un’opportunità in mano a Maduro per distogliere l’attenzione degli elettori dai veri problemi e risollevare le sorti della sua candidatura, data al momento come perdente in una elezione corretta e trasparente. In base ai dati delle Nazioni Unite, il naufragio dell’esperienza chavista è confermato dal fatto che il prodotto interno lordo del Venezuela si è ridotto dell’80% in dieci anni, costringendo più di sette milioni di persone a lasciare il Paese.
Machado ha criticato duramente la consultazione: “Sappiamo tutti cosa è successo ieri: il popolo ha sospeso un evento inutile e dannoso per gli interessi del Venezuela, perché la sovranità è esercitata, non è consultata”, ha scritto sul social X (ex Twitter). Ma la sua partecipazione alle prossime presidenziali non è nemmeno sicura, dato che è stata estromessa dalla vita politica per quindici anni dalla Corte suprema, essendo una degli esponenti dell’opposizione messi fuori gioco dal governo con pretesti di carattere legale. Ma, com’è stato reso noto il 30 novembre, una soluzione a questa vicenda potrebbe venire dall’accordo delle Barbados dello scorso 17 ottobre, che ha consentito l’avvio di una procedura concordata dalla Piattaforma unitaria dell’opposizione e dal governo perché le persone “squalificate” si rivolgano alla Corte suprema di Giustizia al fine di poter essere riammesse nella contesa politica. In base alla soluzione concordata, gli esclusi hanno quindici giorni per ricorrere contro la sanzione: uno spiraglio il cui risultato pare oltremodo incerto, al punto che non sono pochi coloro che pensano che si tratti solo di un modo di prender tempo da parte del chavismo.
Più concreti appaiono, invece, i risultati portati dall’accordo sul versante delle sanzioni energetiche che hanno colpito il Venezuela. L’allentamento delle sanzioni, da parte americana, ha permesso al governo venezuelano di avviare colloqui, per quanto riguarda progetti sul gas, con Repsol, Eni, con la francese Maurel&Prom, oltre che con China Petroleum e Indian Oil. E sono già stati annunciati i progetti riguardanti petrolio e gas con la colombiana Ecopetrol, mentre si fanno insistenti le voci che riguardano accordi con Petrobras e con l’indiana Reliance. In ciò il governo chavista è favorito dalla congiuntura mondiale, che avrebbe bisogno dell’apporto della produzione petrolifera venezuelana per far fronte alla crescita della domanda. Per quanto quella venezuelana sia una produzione ben lontana dai tre milioni di barili di greggio al giorno di un tempo, gli ottocentomila barili attuali – consentiti dalla licenza che l’amministrazione Biden ha recentemente concesso a Chevron, aumentabili a 1,2 milioni di barili al giorno nel 2024 – fanno intravedere una prospettiva di crescita che sembrerebbe costante.
Ciò apre a Caracas un futuro di entrate che potrebbero risollevare la sua economia, superando i tempi bui del crollo verticale della produzione petrolifera. A condizione che, sul piano politico, il governo di Maduro accetti seriamente di procedere sulla strada della normalizzazione dei rapporti con l’opposizione: in primo luogo con la donna che ha vinto le primarie. Non manca anche chi pensa che non sarebbe interesse del presidente americano inasprire le sanzioni. Con il rischio di trovarsi in casa un aumento consistente del prezzo alla pompa, in un anno elettorale che per lui si annuncia a dir poco cruciale. Se a metà ottobre gli Stati Uniti hanno ridotto le sanzioni sul gas e sul petrolio, una decisione che ha premiato l’accordo intervenuto in vista delle elezioni presidenziali, in seguito hanno però minacciato un nuovo giro di vite a causa della mancanza di progressi per quanto riguarda il rilascio di americani e “prigionieri politici” detenuti “ingiustamente”. Il governo di Caracas ha liberato, intanto, cinque politici, tra cui l’ex deputato Juan Requesens e il giornalista Roland Carreño, arrestati rispettivamente nel 2018 e nel 2020. Un po’ poco per gli statunitensi che si aspetterebbero il rilascio di qualcosa come trecento oppositori in carcere. Un tira e molla in cui si alternano la minaccia del bastone e la carota, e il cui vero obiettivo sono elezioni libere in grado di superare una situazione di crisi che si prolunga da troppo tempo. Sullo sfondo, una congiuntura energetica internazionale che ha servito a Maduro qualche buona carta da giocare.