Partono i titoli di testa e già siamo catapultati in un conflitto: è quello che si scatena all’arrivo di un gruppo di profughi siriani in un sobborgo nella Contea di Durham, Inghilterra nord-orientale, dove alcuni residenti si scagliano contro gli stranieri, aggrediscono la giovane rifugiata Yara e le rompono la macchina fotografica. Dentro la guerra tra poveri – e attraverso altre battaglie – ci conduce The Old Oak, ventisettesimo e (forse) ultimo lungometraggio diretto da Ken Loach, scritto ancora una volta da Paul Laverty. Durham, uno dei vari insediamenti cresciuti attorno all’estrazione del carbone, è oggi un’area desertificata: senza scuole, senza librerie, senza più luoghi di ritrovo. È il frutto concreto del piano thatcheriano di chiusura degli impianti minerari, mai sostituiti da nuove vere attività produttive. È anche un emblema vivente della sconfitta, quella subita dopo uno dei più lunghi e sanguinosi scioperi mai sostenuti in Europa, che fra il 1984 e 1985 vide centinaia di migliaia di minatori opporsi alle politiche liberiste della “Lady di ferro”. In questo contesto, l’unico sgangherato pub della zona, The Old Oak (“La vecchia quercia”), è anche l’ultimo luogo di aggregazione rimasto.
“Qui è diventato una discarica!”, dice del quartiere un avventore del pub. Così, come in altre discariche sociali, dove gli autoctoni sentono di essere trattati come spazzatura, la rabbia si indirizza contro lo sversamento dei rifiuti stranieri. E dove riunirsi per organizzare la cacciata dei siriani? Nel retrobottega dell’Old Oak.
Non la vede così Tommy Joe Ballantyne, proprietario del pub con un vissuto durissimo alle spalle: temporeggia per non perdere gli ultimi clienti, ma quel retrobottega, un tempo sala riunioni dei minatori in sciopero, non vuole riaprirlo agli xenofobi. Forse anche Tommy, come un’amica siriana della giovane Yara, teme in cuor suo di vivere in un mondo dove ormai “la speranza è oscena”, dove al massimo è possibile dare un po’ di aiuto, donare una coperta, compiere piccoli gesti di solidarietà (“non è carità”, precisa lui) che non modificano gli assetti generali.
Tuttavia, prima con Yara e poi con gli altri profughi siriani, Tommy avvia una conoscenza reciproca che diverrà amicizia e mutuo sostegno, attivando un circolo virtuoso che infine coinvolgerà tutto il quartiere. La condivisione del cibo, originaria forma di cura dell’altro, sarà il collante che unirà di nuovo le persone nel retrobottega del pub, ristrutturato grazie allo sforzo collettivo. È un processo difficile, ostacolato da stupide cattiverie, da perdite e da lutti. Ma in questo ultimo film di Loach si trasforma l’idea stessa di speranza: passa da essere ob-scena, ovvero fuori dalla scena(come in una delle possibili etimologie), a entrare prepotentemente in scena e nel racconto.
“Quando guardo in camera, scelgo di vedere speranza e forza”, afferma Yara, che con la sua macchina fotografica (donata dal padre scomparso in Siria e riparata con l’aiuto di Tommy), comincia a ritrarre gli abitanti di Durham, cogliendoli nella loro vitalità e divenendo così narratrice di tutta la comunità. In questo sguardo di Yara si riassume la posizione del duo Loach-Laverty: raccontare ciò che di meglio possono tirar fuori le persone, nonostante gli errori e le sconfitte, per attivare un empowerment che forse condurrà lo spettatore a cambiare prospettiva, su se stesso e sul mondo.
In questa chiave il film di Loach più vicino a The Old Oak è Jimmy’s hall (2014): anche lì si lotta per avere una stanza tutta per sé, dove ritrovarsi per ridere e ricominciare. “Io credo nel mio prossimo, nei miei simili. È per questo che proviamo a incontrarci – dice Jimmy –, che ci sforziamo di capire le nostre vite”.
Per chi non conoscesse per intero la produzione dell’ottantasettenne Loach, va detto che non è un autore che indori la pillola. Lucide e spietate le sue analisi del mondo del lavoro e della crisi sociale: pensando solo ad alcuni film più recenti, un altro inno all’essere umano come Io, Daniel Blake (2016) ci spezza il cuore quando si ferma quello del protagonista Daniel, colpito da infarto al traguardo di una lunga battaglia; da Sorry we missed you (2019) si esce laceri come Ricky, spremuto e indebitato dai “lavoretti” infernali della gig economy, che torna alle consegne benché pestato a sangue durante una rapina. In sintesi, sono tanti i cazzotti nello stomaco che lo spettatore, sollecitato in primis nell’intelletto, riceve da molti film di Loach, con vertici persino strazianti (come Family Life, 1971, Ladybird Ladybird, 1994, o Il vento che accarezza l’erba, 2006).
The Old Oak, capitolo forse conclusivo di una carriera di grande coerenza, in ultima analisi ha il merito di porci nuovamente di fronte al tema (per molti demodé) della funzione degli artisti e degli intellettuali e di cosa farcene delle loro visioni del mondo. Rimanendo al solo cinema, quanta produzione contemporanea si limita a compiacere lo spettatore? Consolandolo, senza suscitare domande. O magari ribadendo che il mondo fa schifo, che la gente è cattiva e depressa e che, infine, un asteroide colpirà la terra e moriremo tutti: dei selfie lunghi due ore e passa, spesso sostenuti solo da muscoli di tecnica.
In The Old Oak, guardando la cattedrale di Durham, Yara osserva: “Ci vuole forza per costruire qualcosa di bello”. Una forza che nel cinema deriva da un processo collettivo e condiviso, come ha ricordato Loach nell’interessante incontro seguito alla proiezione speciale del 16 novembre scorso a Roma, dove il regista ha dialogato con Daniele Vicari sul metodo e sul linguaggio. Per costruire un film come “momento di verità”, è indispensabile che tutto Il team condivida il medesimo approccio. In The Old Oak la macchina da presa è quasi sempre ad altezza d’occhio umano, come un “osservatore empatico”, che vuole capire e partecipare. Tutti gli elementi, ha spiegato Loach, concorrono a costruire questa empatia: la scelta della luce naturale, la prospettiva sonora, la scenografia, fino al lavoro di montaggio, dove ogni stacco deve rispecchiare l’attenzione e il rispetto verso le persone. Insomma, l’etica si fa metodo e diviene estetica.
Breve postilla a proposito della solidarietà: ho avuto il grande piacere di conoscere personalmente Ken Loach nel 2012, quando rifiutò il Gran Premio del Torino Film Festival in solidarietà con dei lavoratori licenziatida una cooperativa appaltatrice del Museo del cinema. Su tutta questa vicenda, iniziata dalla lettera scritta al regista da uno dei licenziati, ho realizzato insieme a Nicola Di Lecce un breve documentario, Dear Mr. Ken Loach (2013). Alla fine, Loach venne comunque in Italia per incontrare pubblicamente i lavoratori che lo avevano coinvolto. Con loro, e con noi, fu di una disponibilità senza eguali. All’epoca per quel rifiuto Loach venne linciato dal gotha del cinema italiano. Ma se per ogni acquisto c’è una carta di credito, cose come la coerenza e la solidarietà per alcuni non hanno prezzo.