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Classe o partito?

18 Novembre 2022 Rino Genovese  811

Nel Novecento, e forse fino a qualche decennio fa, sarebbe apparso privo di senso porre l’alternativa “classe o partito?”. Era infatti palese che ci fossero delle classi sociali, con una certa consapevolezza di sé, e dei partiti politici che sostenevano, con maggiore o minore coerenza, i loro interessi. In Italia era evidente che i liberali e i repubblicani fossero i partiti della borghesia, che la Democrazia cristiana fosse un insieme di correnti in parte tradizionalmente legate alla piccola proprietà contadina, in parte al grande capitale – soprattutto nel momento del massimo fulgore dell’impresa pubblica –, e che proprio il suo “interclassismo” fosse l’opposto di quei partiti, come quello comunista e quello socialista (fino a un certo punto), che facevano riferimento alle prospettive del movimento operaio. Del resto, anche l’interclassismo – un cemento ideologico-religioso non da poco – alludeva al fatto che le classi sociali ci fossero, avessero una loro identità, e si trattasse di farle collaborare tra loro attraverso la mediazione politica.

Oggi le classi sono, piuttosto, dei concetti di attribuzione: cioè, da un punto di vista sociologico, con riferimento alle differenze di reddito, o anche in base alla collocazione all’interno dei processi produttivi e di scambio, si può considerare che qualcuno sia un tecnico, un operaio, o un lavoratore dei servizi – più una categoria, quindi, che una classe, per la quale ci vorrebbe la consapevolezza dell’appartenenza a un collettivo. È diventato alquanto improbabile che una persona consideri se stessa come facente parte di una classe: e ciò per la semplice ragione che le classi erano essenzialmente il portato di un conflitto sociale aperto. Semmai, in certe fasi, anche latente, ma di cui c’era la certezza di qualcosa di durevole. Se una volta, per esempio, braccianti e contadini poveri avevano occupato il terreno di un “signore”, avevano preso coscienza di una contrapposizione nei confronti dei proprietari terrieri, ed essa si era depositata in una memoria, appunto, di classe. Oppure gli operai di una fabbrica avevano intrapreso uno sciopero contro il “padrone”, per ottenere aumenti salariali e condizioni migliori di lavoro, e attraverso il conflitto veniva sedimentandosi il sentimento di una contrapposizione di interessi tra i lavoratori e i capitalisti.

Nel frattempo, però, il capitale è divenuto sempre più un sistema anonimo, o un insieme di sistemi anonimi, entro cui è spesso difficile individuare qualcuno come la “controparte”, e a cui per lo più si aderisce mediante forme di consenso passivo, quando non di vera e propria “servitù volontaria”. Neppure la più elementare coscienza sindacale è da considerare come qualcosa che affiori spontaneamente alla mente dei lavoratori, se intesa – e ciò sarebbe decisivo – come appartenenza a un collettivo con interessi omogenei. Questa è naturalmente la conseguenza di un mutamento nel mondo del lavoro, di una sua frammentazione e precarizzazione, che rendono anche i livelli minimali di una presa di coscienza d’assieme non facilmente raggiungibili, in particolare in Italia: un Paese in cui, da tempo, non si vedono forme di lotta sociale di qualche peso ed estensione.

In questo quadro, dunque, un partito di classe non sarebbe più l’acquisizione, all’interno di un collettivo di per sé già esistente, di una coscienza “portata dall’esterno” (come nella concezione prima di Kautsky e poi di Lenin, con la variante gramsciana e togliattiana), proveniente cioè da gruppi di intellettuali edotti in fatto di teoria marxista; e neppure sarebbe una sorta di autoeducazione della classe lavoratrice attraverso l’organizzazione (come nella visione di un Rodolfo Morandi). Piuttosto, non essendoci più una conflittualità sociale che si dà comunque sottotraccia – come oggettiva contrapposizione di interessi, anche quando non appare –, un eventuale nuovo partito dovrebbe fungere da catalizzatore di un processo di ricomposizione, mediante la proposta di una coalizione sociale nella quale si stabiliscano rapporti relativamente stabili tra figure di per sé disomogenee – come una forza-lavoro molto spesso altamente qualificata, ma precaria, e l’immigrato che dipende dalle piattaforme e fa il rider. Sono individui tra loro separati, subalterni a un sistema impersonale, che vanno condotti per mano verso forme di conflittualità sociale che richiedono un di più di coordinamento, quello che solo un partito potrebbe dare loro. E in questo senso – per riprendere e rilanciare una provocazione di Michele Mezza (vedi qui) – ciò che manca è allora sia un partito sia la “classe” che ne deriverebbe.

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Tagscapitale capitalisti classe coalizione sociale conflitto sociale interclassismo lavoro partito Rino Genovese

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