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“Il signore delle formiche”, un film quasi bello

L’ultimo Amelio, pur di valore sotto molti aspetti, pecca nella ricostruzione “di parte” dei fatti realmente accaduti

22 Settembre 2022 Vittorio Bonanni  832

Quando un regista realizza un film prendendo spunto da una storia, o più storie, di persone e cose realmente accadute deve agire con il massimo della delicatezza e del rispetto della verità. Come fa un artista quando lavora l’argilla per ricavarne qualcosa di bello. Se non ci mette la giusta attenzione, il risultato finisce con l’essere discutibile. La storia in questo caso è l’argilla, il film la scultura. Stiamo parlando del lavoro di Gianni Amelio Il signore delle formiche, che racconta la triste e terribile vicenda di Aldo Braibanti (interpretato da un magistrale Luigi Lo Cascio), curiosamente appassionato della vita degli insetti, uno dei migliori intellettuali del nostro dopoguerra, ex partigiano e poi dirigente comunista, colpevole di avere avuto un rapporto intellettuale e fisico con Ettore, suo giovane allievo interpretato da un bravissimo Leonardo Maltese nel suo primo impegno cinematografico, e di avere indottrinato e plagiato il ragazzo.

Il film non è annoverabile sotto la metafora della scultura mal riuscita. O almeno non completamente. La pellicola è da vedere, racconta bene l’amore tra i due e le udienze inquisitorie, ha il grande merito di far tornare alla memoria un episodio emblematico dell’Italia degli anni Sessanta, ma purtroppo anche di adesso, sul tema dell’omosessualità – che non compariva nel codice come un reato per volere di Benito Mussolini, il quale escludeva che il Belpaese potesse avere dei “pervertiti” – e del plagio, considerato invece un reato: in base a cui, appunto, Braibanti fu condannato a nove anni di carcere, ridotti poi a quattro, due dei quali condonati in ragione dei suoi meriti nella lotta contro il nazifascismo.

I due protagonisti si trasferiscono a Roma per fuggire dalla retriva provincia piacentina, ma Ettore viene rintracciato dai genitori, rapito e ricoverato in un ospedale psichiatrico dove viene sottoposto a terribili sedute di elettroshock. A essere sempre più coinvolto dalla vicenda è Ennio (interpretato da Elio Germano), giornalista de “l’Unità”, anche lui probabilmente omosessuale, che combatte strenuamente affinché l’organo del Partito comunista italiano affronti e denunci le aberrazioni del caso, senza trovare però una sponda nel direttore del giornale che addirittura finisce col licenziarlo.

Qui comincia la caduta di stile del regista, con tanto di inaccettabili falsi storici. Dal giornale fondato da Antonio Gramsci non venne licenziato proprio nessuno. E se è vero che nel Pci – grande organizzazione di massa e dunque per definizione “moderata” – certi temi non erano esattamente all’ordine del giorno, e davano anche fastidio, è altrettanto vero che il clima del Sessantotto cambiò, sia pure lentamente, quella mentalità. Tanto che il direttore Maurizio Ferrara – che sarebbe colui che allontana Ennio dalla redazione – scrisse il 13 luglio del 1968 un editoriale di fuoco contro l’assurdità del reato di plagio, aggravato dall’omosessualità che legava i protagonisti del caso.

Assolutamente gratuito, poi, l’episodio in cui Ennio scambia due parole in russo con una esponente di una delegazione sovietica, che appare costernata quando il giornalista le racconta dell’omosessualità, evidentemente al centro della triste vicenda. Che bisogno c’era di infilare quest’episodio? Amelio dimentica, inoltre, il grande impegno profuso dal quotidiano romano “Paese Sera”, legatissimo a Botteghe Oscure, che pubblicò, il 17 luglio del 1968, una lettera aperta ai giudici di Braibanti scritta da Elsa Morante, la quale al pari di tanti altri intellettuali di prestigio – tra questi Umberto Eco, Pier Paolo Pasolini, Carmelo Bene – si batté con forza contro la messa all’indice di Braibanti.

Per concludere, c’è l’inutile contrapposizione della battaglia contro l’omofobia a quella contro la guerra nel Vietnam, con le grida a un gruppo di contestatori da parte di un amico di famiglia del giornalista: “Manifestate per il Vietnam e non per un pervertito” – urla il comunista di turno. Il tutto condito dalla fugace apparizione di Emma Bonino. Quasi una sorta di non voluto spot elettorale, potremmo dire con malizia. A significare che, a favore dello scrittore, si batterono solo i radicali, area di appartenenza del regista, quando con tutta evidenza non è così (come ricorda Rino Genovese qui).

Non sappiamo se nel corso della sua vita il regista, che ha fatto coming out nel 2014, si sia scontrato con un’omofobia “di sinistra”, anche se all’epoca il Pci era scomparso da tempo. Ma mentre Pier Paolo Pasolini, che pure ebbe non pochi problemi con la principale forza della sinistra italiana, considerò il Pci “un Paese nel Paese”, Amelio ha perso un’occasione per fare un bel film, quale pure sarebbe stato, se avesse evitato di dare spazio a un’avversione che lo ha portato a omettere fatti reali e a infilarne altri mai accaduti. 

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