Un tentativo di integrazione dei migranti in un piccolo paese della Calabria, un sindaco accusato di reati gravi e una sentenza di primo grado che lo condanna a tredici anni di galera. L’esperimento di Mimmo Lucano sembra aver inciampato in ostacoli insormontabili, così grossi da franare sull’apprendista stregone. È davvero così? Sorprende che gli entusiasmi incondizionati in favore di Lucano si siano ridimensionati alla svelta; e questo già dopo l’accusa, prima ancora della condanna. L’uomo indicato come benefattore diventa un pericoloso criminale, e questa mutazione da Dottor Jekyll a Mister Hyde ha qualcosa di eccessivo.
Come al solito bisogna aspettare la motivazione della sentenza, ma il contesto, la condanna, la misura della pena e le reazioni già permettono di intravedere qualcosa.
La questione di fondo riguarda un tema centrale. Nelle grandi mobilitazioni del Novecento era chiaro il bisogno di rivendicare la giustizia, senza dover per forza rispettare quella dello Stato e degli enti pubblici. Dagli anni Novanta – quando Mani pulite e l’arrivo di Berlusconi al potere determinano una richiesta pressante di legalità – si sviluppa un paradigma diverso, proprio mentre dilaga un’occupazione del potere nemica della democrazia. Resta aperto il problema di come fare una politica differente, senza mettersi contro la legge, ma anche senza accettare il vecchio andazzo criminale e notabilare che costituisce il corpaccione profondo e ingiusto dell’esercizio del potere in Italia.
Se poi la cosa riguarda i migranti – e qui si fronteggiano e si intrecciano esigenze umanitarie, conflitti e a volte interessi inconfessabili – è ancora più difficile realizzare modelli alternativi. Convivenza, al di là di dichiarazioni teoriche e propositi innocui, significa trovare alloggi adeguati, lavoro almeno per sopravvivere, un minimo di servizi sociali. A progettare utopie sono buoni tutti (si fa per dire, perché di questi tempi anche l’utopia è diventata un lusso tassato), ma a rimboccarsi le maniche ci si sporca.
L’approfondimento giudiziario dirà, in sede di impugnazione, se Lucano è responsabile di reati veri oppure di sciatterie da smanaccione, di cui magari altri potrebbero avere approfittato. Comunque sono significativi, subito, alcuni elementi.
Non sono stati proposti, o non hanno avuto lo stesso spazio, modelli concreti di integrazione dei migranti in un piccolo centro, diversi da quello di Riace e con lo stesso spessore. Di Lucano si è parlato parecchio, e forse non gli ha giovato. Il “chi non fa non falla” in un processo penale non vale niente, quanto alla colpevolezza, anche se è di elementare buon senso; varrebbe, comunque, sulla misura della pena, se Lucano fosse colpevole di qualcosa. (A proposito. In un paese di duemila abitanti, è difficile pensare che si possano fare danni economici enormi.)
Ogni esperimento di integrazione, per costruire modelli nuovi, non frequentati, anzi inevitabilmente mal frequentati, è pieno di inciampi. È difficile distinguere tra la formazione di un tessuto sociale spontaneo e quella di piccole cerchie di sottopoteri autoreferenziali. In casi noti, specialmente nelle occupazioni di edifici, nei grandi centri urbani e in particolare a Roma, gruppi di proletari e sottoproletari hanno fatto emergere capetti prepotenti, a volte decisamente delinquenti, abili nell’accaparramento del territorio e delle risorse.
È facile, per il potere costituito, la reazione repressiva, mentre la mancanza di prestazioni sociali garantite dall’alto favorisce l’autofabbricazione di garanzie dal basso – e basso può voler dire più in basso della legge. Il “chi non fa non falla” vale anche per il potere, ma con un altro senso: i gruppi dirigenti che non affrontano le novità non fanno, e non rischiano di fallire. L’integrazione dei migranti richiede un’economia solida, e il modello di Riace – artigianato, piccola trasformazione, altre attività a bassa tecnologia – fa più tendenza che reddito sicuro. Per questo ha bisogno di contributi pubblici, con tutte le ovvie conseguenze.
L’integrazione vuole anche una certa fermezza di direzione politica, e il confine tra questa e il fare da padrone è sottile. Non si può rimproverare a un sindaco locale l’ambizione, e, ammesso che Lucano ne abbia, è un tratto della personalità che gli arrampicatori navigati, quelli di livello regionale e nazionale, sanno coltivare con più destrezza dell’ex sindaco di Riace: lui dichiara di non avere neppure saputo, prima del processo, cosa fosse la concussione.
Si notano le dichiarazioni della procura che ha ottenuto la condanna. C’è compiacimento perché la tesi dell’accusa è stata accolta, ma le parole tradiscono imbarazzo sulla pena, che è andata ben oltre le richieste: non sette anni e alcuni mesi, come proposto, ma quasi il doppio. È evidente che, quando si vuole l’affermazione di principio, poi non ci si può stupire della sentenza: l’imputato è quello lì, subito, non quello del prossimo processo.
Quanto ai migranti da integrare, spesso vengono da contesti di estrema violenza, e se sono lasciati senza rete può succedere di tutto; considerando le conseguenze, la gestione con modi opachi o spicci di un piccolo ente pubblico locale scende al livello di una cosa da poco. Certo, non sono considerazioni decisive per un tribunale, ma il problema resta: se un modello di integrazione tiene insieme persone di religioni e culture diverse, a prezzo di strappi o forzature della legge, disperdere quel tentativo è comunque un danno.
Proviamo a immaginare: Lucano sconta davvero quella pena durissima, ma qualcuna fra le persone che si è tentato di integrare, lasciata a se stessa, commette crimini gravi, magari di sangue: lo Stato certamente non risarcisce per questo le vittime. Un caso di errore giudiziario? No, qualcosa di più sottile: un errore delle regole, una giustizia che si fa del male da sé. La questione è più di programmi sociali che giuridica, e dimostra che dove la politica è latitante, la mitica dea giustizia bendata non è una virtù.
Amministrare un ente pubblico in modo irreprensibile è difficile, anche se è piccolo. Quando, molti anni fa, Susanna Agnelli si incapricciò di fare il sindaco di Monte Argentario, ebbe i migliori mezzi e collaboratori, grazie alle sue disponibilità e frequentazioni. Il municipio funzionava, ma non si trattava di integrare immigrati bensì di preservare una perla naturalistica, cosa che in parte riuscì. Lucano non ha avuto le stesse risorse né gli stessi appoggi. Se fosse un ricco filantropo, contro di lui non si troverebbe una cifra fuori posto né un timbro per traverso. Ma i filantropi possono avere lati in ombra, e chi è morto di dinamite non ha ringraziato Alfred Nobel né il premio che porta il suo nome.