Provato da tre lustri di persecuzione, commosso ma lucido, il 1° ottobre Julian Assange ha fatto il miglior uso che poteva della sua prima occasione pubblica. Sede, la commissione Affari giuridici e Diritti umani dell’assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Adesso, qualche riflessione agrodolce.
Diciamo subito che non si è sentita una domanda fatta da italiani; eppure, non soltanto ce ne sono nell’assemblea, ma quattro siedono in quella commissione (fra loro Andrea Orlando, già ministro della Giustizia). E comunque, la seduta era aperta anche a membri dell’assemblea che della commissione non fanno parte.
Effettivamente, come osserva Assange, dall’epoca del suo arresto pretestuoso, la situazione è cambiata. È peggiorato il dilagare di segreti, depistaggi e attacchi alla libertà di informazione. Di mezzo, ci sono anche la pandemia, la crescita della tecnocrazia e del controllo, due guerre in corso (in più, rispetto alle altre che non fanno notizia).
Sono state ripresentate le critiche al sistema informativo: ha usato le notizie di Wikileaks ma poi ha abbandonato Assange al suo destino, senza proporre un serio lavoro sull’immenso materiale. Il vuoto, figlio della società dello spettacolo – non a caso Guy Debord la ricollegava alla proliferazione di segreti – e dell’industria dell’informazione, che, a questo punto, sarebbe meglio chiamare speculazione, pesa in modo vistoso ogni giorno di più, e proprio sulle guerre si vede bene.
È di un certo interesse, l’osservazione su quanto accaduto a Chelsea Manning dopo la sua liberazione; sotto la presidenza Trump è stata di nuovo arrestata per cercare di costringerla a deporre contro Wikileaks. Assange nota che di solito si cerca di forzare i giornalisti a deporre contro le fonti, mentre su Manning è successo il contrario. Possiamo aggiungere che il ribaltamento va proprio ricondotto alla natura di Wikileaks, in cui la fonte ha un’importanza molto forte. Che l’alterazione dei ruoli si risolva in persecuzione, è un riflesso da leggere insieme all’inadeguatezza del sistema comunicativo nel suo insieme, e soprattutto nel segmento finale, quello della selezione e della divulgazione strutturata.
L’apparato dell’informazione, condizionato dall’affarismo, da gruppi di potere e da patti con strutture spionistiche, è diventato il freno contro la verità e la macchina di un demenziale, incessante oblio informato. Anche per questo, alla domanda di un componente della commissione, se rifarebbe quello che ha fatto, Assange risponde che, considerando le manovre notate in Gran Bretagna nel periodo in cui era trattenuto lì, se tornasse indietro non si sceglierebbe certi collaboratori nel mondo dell’informazione. Bene che abbia aperto gli occhi, ma senza una proposta costruttiva si rischia di non imparare nulla.
Si è preso atto di quella che è stata definita important lesson: quando i massimi poteri possono influenzare l’interpretazione della legge, saltano i controlli di legalità. Era ora che questo dato elementare venisse mandato giù, adesso però bisogna digerirlo. Imperdibile, l’osservazione che nel Regno Unito i giudici – fra loro, però, alcuni si sono dimostrati sensibili o un po’ meno ottusi – vengono da un ambiente ristretto, e che la società britannica è molto legata agli Usa, come dimostrano le cointeressenze dei servizi segreti, delle industrie e delle banche. In Italia, va difeso il reclutamento limpido dei magistrati: è uno strano “ascensore sociale”con una sola fermata, ma non è inceppato, e la parte peggiore della politica vuole manometterlo.
Il punto di vista di Assange, che ha provato il carcere duro, sui giudici britannici e sul loro allineamento (una straordinaria deferenza nei confronti degli Usa, dice, in conseguenza della selezione professionale e della provenienza), potrebbe valere per molti Paesi, in misura direttamente proporzionale alle sperequazioni di classe. La Gran Bretagna, per l’appunto, è rigidamente classista. I giudici di là dalla Manica, dice Assange, don’t need to be told what to do, nel senso che il loro conformismo è spontaneo. Come disse dei giuristi e dei politici nostrani un ex presidente della Corte costituzionale, Giuseppe Tesauro, “in ginocchio e con entusiasmo” (si riferiva all’atteggiamento nei confronti di potenze estere, in quel caso della Germania).
Sempre sulla legge, l’intervistato prende atto che ogni normativa può essere strumentalizzata dal potere; occorre continua vigilanza. La chiosa sempliciotta si può perdonare a un uomo che deve riprendersi da anni durissimi, ma sta a chi lo ascolta e a chi elabora, fare uno scatto e volare più alto delle osservazioni prevedibili. Invece si è rimasti ancora su toni ovvi, commenti didascalici, convenevoli.
Sul diritto, qui ci vuole un raffronto con un’altra vicenda, meno nota, leggibile in parallelo col caso Wikileaks. Lo strapotere di poteri statuali, militari e securitari, produce crimini che devono essere puniti e risarciti. Ma proprio mentre Wikileaks aveva cominciato a funzionare, nel 2008 è iniziata una causa davanti alla Corte internazionale di giustizia, intentata dalla Germania contro l’Italia, per impedire i risarcimenti dei gravi crimini di guerra e contro l’umanità; la Germania l’ha vinta nel 2012, ottenendo una sentenza che è una licenza di uccidere per tutti; in quel momento Assange era già bloccato a Londra. La decisione di quel processo – per inciso: ora ne pende un altro, sempre intentato dalla Germania per non risarcire i crimini nazisti – non è riconducibile al caso Wikileaks, ma la coincidenza grida l’impunità del potere, in sede penale e civile.
È esatto o discutibile, il parallelo di Assange fra il comportamento degli Usa, che si riservano di accusare cittadini europei di violazione dell’Espionage Act, e la Russia, che accusa giornalisti stranieri in relazione alla guerra in Ucraina? A giornalisti italiani succede appunto di essere accusati, ma mentre si trovano fuori della portata di autorità russe. Il comportamento statunitense costituisce un precedente, o almeno un atteggiamento accostabile, eppure su questo il mondo della comunicazione sembra timido.
Proprio la questione della repressione transnazionale del giornalismo, come quella del pericolo di estradizioni di giornalisti, è il prosieguo con altri mezzi dell’impunità del potere. I confini sono rigidi per mettere al riparo criminali di Stato, porosi quando si tratta di colpire chi svela i loro delitti.
Per il resto, siamo alle solite. Ci vuole una riflessione sulla caratteristica specifica di Wikileaks, una struttura basata sulla trasmissione spontanea di informazioni da parte di persone spinte dalla coscienza e non dal tornaconto. Solo chiarendo dov’è l’inciampo, si può riprendere il cammino.
A proposito di novità. Assange sull’intelligenza artificiale è cauto. Sembra che, in libertà da poco, senta ancora il bisogno di informarsi, anche se ha già notato che molti degli obiettivi di Israele, in questo momento, sono selezionati appunto dall’intelligenza artificiale. Già tre anni fa una giornalista italiana, Stefania Maurizi, nel suo Il potere segreto, aveva ricordato che, per ammissione dei comandi Usa, si uccide sulla base di metadati, quindi al di fuori della legalità e persino di sequenze logiche verificabili. Mancano ancora due domande di fondo. Una deve riguardare cosa muove (o frena) la coscienza a consegnare notizie alla collettività in nome di un mondo migliore: senza Manning, niente Cablegate; ed è bene, che Assange abbia ricordato quella persona formidabile. L’altra è in che modo l’informazione possa servire a un progetto di cambiamento, che a questo punto deve essere ben più avanzato della rivelazione di dati spaventosi e minuziosi sulle mascalzonate del potere. Senza la solidificazione di un movimento di massa, ogni rivelazione si vaporizza in nubi di notizie, di commenti, di parole e di stati d’animo innocui.