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La lezione di Amazon: mai più senza algoritmi

12 Aprile 2021 Michele Mezza  674

Nel suo saggio La società automatica (pubblicato da Meltemi), Bernard Stiegler spiega che in un processo che sostituisce l’evoluzione naturale della specie con una trasformazione artificiale guidata dal calcolo, il punto di crisi è dato dall’assenza di una proposta di sinistra che colga e rovesci la potenza di riorganizzazione sociale che il calcolo propone. La radicalità della dinamica – sostiene l’autore – è un elemento di precarietà e incertezza per il capitalismo, che la deve usare contro il lavoro; mentre potrebbe essere un vantaggio per chi mira a un riassestamento globale degli assetti e delle gerarchie sociali.

Una vera lezione, in questo senso, al sindacalismo globale viene dallo stabilimento di Amazon in Alabama. I fatti sono noti: dopo una pressione di circa metà dei cinquemila dipendenti per avere una tutela sindacale, si indice un referendum per il riconoscimento della rappresentanza dei lavoratori. La metà non va nemmeno a votare, e dei votanti solo un terzo si pronuncia a favore di un sindacato interno. Almeno 1.500 lavoratori, che avevano solo qualche mese prima richiesto a gran voce una tutela formalizzata, hanno cambiato idea. Le organizzazioni sindacali denunciano una pressione forte da parte della proprietà. Cosa assolutamente vera. Con tutti i mezzi di una potenza comunicativa quale quella di uno degli apparati più potenti del globo, l’azienda di Jeff Bezos ha fatto intendere a ognuno dei suoi dipendenti che l’entrata di un sindacato nello stabilimento avrebbe messo a rischio il futuro del loro lavoro.

Precedentemente, Amazon aveva anche dato segnali più tangibili per escludere ogni forma di organizzazione sindacale del lavoro: aveva raddoppiato il minimo della paga oraria, che è arrivato a oltre quindici dollari, e – cosa ancora più ambita da quelle parti – aveva esteso a tutti gli addetti la copertura sanitaria. Una guerra preventiva che ha avuto ragione di un’offensiva del mondo del lavoro che aveva messo in campo calibri pesanti, come l’intera sinistra del partito democratico, a partire dal leader Bernie Sanders; mentre lo stesso presidente Biden, che in questa fase sta offrendo un’immagine molto radicale del governo del paese dal punto di vista sociale, si era speso direttamente per appoggiare una sindacalizzazione di quel comparto della logistica digitale.

Il punto su cui riflettere è il seguente: capire come in un ambiente quale quello caratterizzato da sistemi altamente tecnologizzati si possa creare una solidarietà collettiva, creando un soggetto negoziale in grado di rappresentare l’insieme del mondo del lavoro.

Una fabbrica digitale non è semplicemente un luogo di produzione in cui si è applicata una dose maggiore di macchinismo. Nel dualismo classico fra capitale e lavoro, si intromette un soggetto diverso, l’arbitrato dell’algoritmo, che interviene lungo tutta la giornata di ogni singolo dipendente. Infatti Amazon spiega che il suo lavoro non è altro che un prolungamento delle funzioni e delle modalità con cui noi viviamo sulle piattaforme. A cominciare dall’individualizzazione che questo codice di vita ci ha imposto. Spezzare questo sortilegio, questa egemonia cognitiva, per dirla con Gramsci, significa intervenire esattamente nei punti di frequenza del sistema, ossia lì dove si crea valore e potere, prima ancora che prodotto.

Lo stesso Marx, nei Grundrisse, ci aveva avvertito: lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà una ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza. Siamo oggi ben oltre questo orizzonte, descritto prima ancora di compiere l’intera elaborazione de Il capitale ma posto al termine dell’evoluzione di quella fase dell’industrializzazione materiale. Ora siamo in uno stadio in cui la tecnica non mira ad automatizzare i comportamenti nel lavoro ma a sostituire gli umani al lavoro. Le fabbriche non sono più, dunque, uno strumento permanente in cui si accumula valore sfruttando il lavoro vivo: sono laboratori provvisori in cui si accumulano dati ed esperienze per abolire i lavoratori.

In un preveggente numero di Quaderni rossi del 1963, Romano Alquati, dopo aver condotto forse l’unica vera ricerca sul lavoro informatico negli stabilimenti Olivetti del tempo, scriveva: “La cibernetica ricompone globalmente e organicamente le funzioni dell’operaio complessivo polverizzate nelle microdecisioni individuali: il bit salda l’atomo operaio alle cifre del Piano”. Ovviamente il movimento operaio organizzato nel mondo, e in Italia, ha parlato di tutto ma non di questo – ed è andata come stiamo vedendo. Alquati si era accorto, infatti, che la tecnologia non si esauriva nell’estrazione di plusvalore sempre più intenso da un lavoro che veniva sempre più emarginato nell’azione consapevole della produzione. Piuttosto, il fine di quelle prime forme di intelligenza che venivano introdotte nelle fabbriche era proprio la scomposizione delle attività produttive in atomi e la ricomposizione di ogni atomo con un piano di programmazione tecnologica, che mirava all’automatizzazione integrale. Allora il linguaggio era quello dei pionieri dell’informatizzazione che ancora si definiva cibernetica. Oggi, al posto di atomi e piano, parliamo di big data e intelligenza artificiale.

Amazon è al centro di questo processo: è il più grande laboratorio di smaterializzazione del lavoro del mondo, con circa un milione e trecentomila dipendenti diretti. In palio c’è il vaccino dal lavoro, esattamente come per il virus. Si sta correndo per trovare procedure e modalità di automatizzazione globale dei processi di trasformazione e formattazione di oggetti e servizi, sulla base dell’incrocio di due grafi di dati: quelli dei consumatori, che vanno orientati e spinti a richiedere esattamente quanto c’è in magazzino, e quelli dei dipendenti che vanno sostituiti con un modello robotizzato, che renda il servizio più pregiato del prodotto che consegna.

In questo contesto, appare davvero difficile ricostruire un potere negoziale esattamente agendo sui fattori marginali e del tutto occasionali quali la retribuzione e le modalità di impegno. Certo, la proprietà cerca di spendere meno e di rendere più efficace il suo servizio, intensificando la pressione sul lavoro; ma il motore del processo non sta tanto in occasionali e provvisorie relazioni industriali, quanto in una strategia generale che riguarda l’uso e il controllo del sistema arbitrale che governa l’intera nostra vita di consumatori, utenti, clienti, dipendenti e cittadini: l’algoritmo.

Non a caso, ancora Marx, a chi lo rimproverava di trascurare milioni di emarginati e plebei, o coloro che languivano nelle campagne, rispondeva non senza qualche altezzosità: è l’anatomia dell’uomo che spiega quella della scimmia. Se non si accumulano forza e potenza nello scontro sul punto più alto dello sviluppo, non si riesce a tutelare nemmeno le fasce più escluse. In una contesa basata sul primato del sapere e delle applicazioni tecnologiche, bisogna poter mettere in discussione non solo e non tanto queste applicazioni, ma la logica e l’organizzazione stessa della produzione del sapere: ossia la proprietà privata di dati e calcolo.

Da questo punto di vista, si può risalire la filiera sociale e arrivare fino a Bezos, in Alabama, per porre il tema di un lavoro come controparte negoziale non tanto dell’impacchettamento dei colli nei suoi capannoni, quanto della condivisione del premio che si ricava dall’automatizzazione: una co-determinazione nella dislocazione del lavoro, in termini di orari e forme di impegno, con una condivisione delle risorse per condividere i benefici di una ridotta necessità di lavoro disciplinato e gerarchico. Più concretamente, bisogna porre il tema della black box, di quella scatola dove algoritmi e dati determinano la facoltà della proprietà sia di ottimizzare la catena di produzione in ogni stabilimento, sia di programmare la futura sostituzione integrale dei lavoratori.

In Italia questo passaggio appare addirittura più evidente. Nel corso della mobilitazione delle settimane scorse, con lo sciopero nei centri Amazon e nell’indotto delle ditte in appalto (circa cinquantamila addetti complessivamente), si è visto come i dipendenti fissi della logistica Amazon siano risultati meno pronti a rispondere alle sollecitazioni sindacali dei giovani riders che vivono il loro supersfruttamento come una fase della loro vita, anche se possono poi rimanervi impigliati per lungo tempo. I primi riproducono la difesa del posto di lavoro, risultando più esposti alle pressioni psicologiche della proprietà; i secondi, nel loro precariato, appaiono più irriducibili a discipline gerarchiche, e pongono immediatamente il tema del controllo del tempo come indicatore del potere tecnologico. In entrambi i casi, però, rimane sullo sfondo la questione della prospettiva dell’automatizzazione, che viene elaborata e preparata in una fabbrica italiana di Citta di Castello. In questo caso, non sarebbe nemmeno troppo complicato riprogrammare quella connessione degli atomi di lavoro al piano del capitale, come scriveva Alquati, riprogrammando l’intera filiera del lavoro sulla base di una integrazione fra i lavoratori degli stabilimenti Amazon e quelli delle imprese che preparano la robotizzazione.

L’obiettivo finale – questo è il punto – dev’essere adeguato a un processo che muta, antropologicamente, il rapporto fra l’uomo e il lavoro. Che senso dargli e quale valore attribuirgli? È solo una congiura del capitale, perciò da scongiurare arroccandosi nelle fabbriche, o invece è una strategia da rovesciare, usandola per ricostruire un’idea di vita e di welfare radicalmente differente?  Il lavoro è davvero un ostaggio che il capitale controlla per ricattare i lavoratori, o piuttosto un male minore da limitare ulteriormente contestando al capitale proprio la sua necessità?

Scriveva nel 2009 Lucio Magri sulla Rivista del Manifesto: “La più grande novità che il capitalismo ha introdotto nella storia della società riguarda certamente il lavoro: da un lato la progressiva trasformazione di tutto il lavoro vivo in salariato, dall’altro l’incorporazione incessante del lavoro vivo in capitale, la sua incorporazione in un sistema di macchine (…). Con l’innovazione tecnologica informatica, un’occasione storica assolutamente nuova si offre per la liberazione umana: sia come liberazione dal lavoro, sia come liberazione del lavoro (…). Ancora più di ieri o di oggi si porrà il tema del graduale superamento, e non solo della tutela, del lavoro salariato e forse anche il tema ancora più radicale del lavoro liberato”. Si tratta allora di un cambio di paradigma che dovrebbe vederci all’offensiva, non persi in uno spaurito disorientamento.

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TagsAlabama algoritmo amazon Bernard Stiegler Joe Biden Karl Marx lavoro logistica digitale Lucio Magri Michele Mezza Romano Alquati sindacato tecnologia

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