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La violenza in Francia
I nostri amici francesi sono allarmati dalla crescente violenza poliziesca nei confronti delle proteste che agitano il Paese, da più di due mesi, contro la riforma delle pensioni che Macron sta cercando d’imporre (vedi qui). Le tecniche sono le più varie: si va dalla nasse – una forma di accerchiamento dei dimostranti da parte delle forze dell’ordine, per prenderli in una “rete”, identificarli e sbatterli in guardina per almeno ventiquattr’ore – fino ai classici tiri di lacrimogeni anche ad altezza d’uomo, i getti con gli idranti, le manganellate, e così via. La violenza è un modo di comunicare, e il messaggio che si vuole dare è chiaro: evitate di manifestare se non volete guai! Il 16 marzo, per esempio, ci sono stati a Parigi circa duecentocinquanta arresti, ma solo nove si sono tradotti in imputazioni penali. Il “Syndicat de la magistrature” (qualcosa di simile alla nostra Magistratura democratica), in un comunicato del 19 marzo, ha commentato: “Queste cifre mostrano che le forze di sicurezza utilizzano molto arbitrariamente il fermo di polizia, declinazione concreta di una volontà politica di mettere la museruola alla contestazione rompendo le manifestazioni in corso e dissuadendo – per mezzo della paura – le manifestazioni future”.
Non si sta lottando solo a Parigi ma anche nelle altre città; e non si tratta unicamente dei sindacati degli “anziani”, perché negli ultimi cortei si è vista una massiccia presenza di studenti liceali e universitari (che Macron sta ora cercando di blandire con l’annuncio di un aumento degli importi delle borse di studio: una maniera, per molti, di mantenersi durante tutto il periodo della formazione, essendo pressoché assente, in Francia, il ridicolo “welfare familiare” all’italiana). Perfino in aperta campagna c’è mobilitazione. Il 25 marzo scorso, nel dipartimento delle Deux-Sèvres, zona in cui è in costruzione un mega-bacino per la raccolta dell’acqua, un movimento ecologista radicale – contrario all’opera, accusata di essere al servizio dell’agro-industria – si è scontrato a lungo con la polizia, che avrebbe poi impedito l’arrivo dei mezzi di soccorso per prestare le prime cure a due manifestanti feriti (probabilmente da tiri di lacrimogeni), che versano adesso in gravi condizioni.
Perché la violenza contro le donne?
“Il primo contrasto di classe che compare nella storia coincide con lo sviluppo dell’antagonismo tra uomo e donna nel matrimonio monogamico, e la prima oppressione di classe coincide con quella del sesso femminile da parte del sesso maschile”: così Engels in L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Il pensiero socialista ha saputo mettere a fuoco come l’evoluzione sociale sia consistita in un progressivo asservimento della donna all’uomo: specialmente a partire da quelle culture arcaiche in cui è ipotizzabile, al contrario, un sistema delle relazioni del tutto diverso, incentrato sul matriarcato. È soprattutto però con il passaggio al moderno modo di produzione capitalistico che la regola diventa la monogamia come un regime imposto alla donna, per avere la certezza che il patrimonio lasciato in eredità da un uomo vada proprio ai suoi figli e non ad altri. Ma, come Engels non manca di sottolineare, l’istituto monogamico è ipocrita: permette livelli di trasgressione molto differenti nel caso dell’uomo e in quello della donna, con una tolleranza diversa registrata perfino dai codici, che puniscono l’adulterio della donna e non quello dell’uomo, se non in via eccezionale. E con l’adulterio c’è l’altra immancabile istituzione che accompagna la famiglia, quella della prostituzione.
Oggi si dice che le cose siano cambiate. In parte lo sono, è vero, ma non più di tanto, e comunque non esattamente nella direzione sperata. Il capitalismo si è diffuso a tal punto, diventando “modo di produzione e di consumo”, che non esiste più strato sociale al riparo dall’ipocrisia borghese riguardante la famiglia e, più in generale, i rapporti di coppia. Forse le forme più oneste di oppressione della donna sono quelle ancora presenti nel mondo arabo e islamico: in certi contesti, è proclamato a chiare lettere che le donne non contano nulla per sé, che sono solo cose appartenenti a un marito, a un padre, a un fratello. Lì è evidente l’oltraggio che si fa alle persone.
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Violenza poliziesca al tempo della pandemia
Le teste rotte degli studenti, che manifestavano per la morte atroce di uno di loro durante uno “stage lavorativo” parascolastico, hanno riportato all’ordine del giorno una certa disinvoltura nell’utilizzare la maniera forte, che è stata una costante dell’azione della polizia nel biennio pandemico. La ministra degli Interni, Luciana Lamorgese, se l’è cavata sommariamente, parlando del verificarsi di un “cortocircuito” e della violazione della norma, motivata dal Covid, che proibisce “manifestazioni non statiche”. In realtà, le botte somministrate senza parsimonia e senza criterio a ragazzini che avevano tutte le ragioni per protestare pongono un problema non risolvibile con argomentazioni tecniche e cianciando di “infiltrati”, cercando così di giustificare un operato evidentemente ingiustificabile.
Nemmeno pare risolutiva l’introduzione di codici identificativi sui caschi dei poliziotti, di cui si parla da anni, e che è stata spesso invocata quale panacea a questo male, dato che le violenze cui stiamo assistendo non rappresentano una questione riconducibile unicamente all’azione “anomala” e all’iniziativa di singoli agenti, quanto piuttosto sono da considerare nell’ambito dell’operato delle forze dell’ordine nel loro complesso. E d’altro canto non sono stati solo i ragazzini dei licei a sperimentare sulla loro pelle il corso poliziesco che pare delinearsi nel mondo inedito che si sta schiudendo, tra “emergenza” e “ripresa”. Già abbiamo visto, negli ultimi due anni, caricare senza farsi tanti problemi i picchetti degli operai in sciopero, già abbiamo visto le mattanze in carcere.
L’altra epidemia americana
Bergoglio un anno fa: siamo tutti nella stessa barca
Questo 27 marzo 2021 potrebbe essere il giorno della divulgazione della lettera “nemici tutti”, che ben esprimerebbe la cultura nichilista, suprematista, liberista e populista di chi nasconde milioni di dosi di vaccini, blocca tutta la produzione AstraZeneca, visto il locale picco dei contagi, e altro. Manca ancora il capitolo sulla scoperta di partite di vaccini contraffatti, ma si potrebbe sempre fare a tempo nonostante il 27 sia ormai alle porte, la data perfetta.
Infatti il 27 marzo 2020, un anno fa, sotto la pioggia, il vescovo di Roma, Francesco, pubblicò la sua prima video enciclica. Quella sera lui non scese dalla basilica in piazza San Pietro per comunicare ai fedeli la sua verità. No. Quella sera il vescovo di Roma, neanche protetto da un ombrello, fiancheggiò tutta la piazza per poi risalire verso la basilica, come avrebbe fatto un qualsiasi pellegrino, o turista, o curioso. Il senso di quel lungo camminare di un uomo assillato dall’artrosi, con indosso solo la sua veste bianca, senza alcun paramento, senza alcun coadiutore, stava nel darci la certezza che radunava tutti, senza scartare alcuno. Come a dire con i gesti, che poi avrebbe ripetuto con le parole, che, al contrario di quanto si afferma in “nemici tutti”, siamo tutti sulla stessa barca. È stato difficile allora capire appieno cosa volesse dire questo “siamo tutti sulla stessa barca”, ora con la vicenda dei vaccini è più chiaro.