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Strategia della tensione e dintorni: la retorica della verità
Ogni anno, nella giornata carica di simboli del 9 maggio, con gli interventi e le celebrazioni, si susseguono le richieste di verità. Fare luce sugli anni di piombo, dipanare le ombre, chiarire le responsabilità e così via. È vero, non sappiamo molte cose del nostro passato recente, ma non è vero che non sappiamo niente: questo aspetto che andrebbe consolidato, rafforzato nel discorso pubblico, è invece sempre tralasciato se non taciuto.
Sappiamo che le stragi di stampo neofascista furono realizzate da gruppi allevati e protetti dai nostri servizi segreti, che Ordine nuovo e Avanguardia nazionale sono state due centrali del terrore accolte dal mondo militare, e che hanno dato vita ai loro eredi spontaneisti, quelli che hanno agito a Bologna; sappiamo che le forze armate sono state tentate da interventi autoritari; che il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, spartiacque della storia della Repubblica, sono stati possibili grazie alla collaborazione o al non intervento – il che è la stessa cosa – degli apparati di sicurezza e alle scelte della Democrazia cristiana. La falsità del racconto brigatista, concentrato nel noto “Memoriale Morucci”, è accertata dalla commissione parlamentare Moro2. Le Brigate rosse hanno voluto nascondere la verità e non beviamo la storia che lo avrebbero fatto per tutelare persone sfuggite alle inchieste: avrebbero potuto raccontare i fatti senza fare nomi. L’elenco di ciò che sappiamo non è così breve. Ora si aggiunge anche la grande inchiesta bolognese sulla P2 come mandante della strage alla stazione, che si pone come un centro di novità assolute, potenzialmente in grado di scrivere un bel pezzo di storia – negli interventi tenuti il 9 maggio, lo ha ricordato Paolo Bolognesi, indomito presidente dell’Associazione delle vittime di Bologna. Ma nel discorso pubblico c’è molta genericità.
“il manifesto”, giornale di mezza età, compie gli anni
Ripensandoci, fa impressione. In questi giorni il manifesto compie cinquant’anni (primo numero il 28 aprile 1971, quattro pagine al prezzo di cinquanta lire). Traguardo, per altro, già varcato con i cinquantadue anni trascorsi dall’uscita del primo numero del mensile (giugno 1969), che lasciò il posto al quotidiano. Bisogna ricordarlo: il manifesto esisteva prima di Repubblica, che nacque nel 1976. Ed è in edicola e su internet tuttora ogni mattina, a differenza dei “cugini” dell’Unità e di altre testate della sinistra scomparse.
Si tratta perciò di un miracolo politico ed editoriale su cui indagare. Ha pure coinvolto varie generazioni di giornalisti e militanti. Infatti, il manifesto è stato una scuola di giornalismo, oltre che di politica, senza eguali. Per chi si ricorda dello stanzone di piazza del Grillo 10 (prima sede della rivista) e delle stanze del quinto piano di via Tomacelli 146 (indirizzo della redazione per tanti anni), c’è da stropicciarsi gli occhi increduli. Nel 1971 si pensava a un “quotidiano corsaro”, come amava definirlo Luigi Pintor. Si puntava, in quel momento, a qualcosa che avrebbe avuto vita incerta e forse breve. Si scoprì in corso d’opera che si poteva fare politica nella “forma giornale”. Ora il manifesto fa parte a tutti gli effetti della storia della sinistra italiana e del giornalismo nazionale. Sottoscrizioni e chiamate di aiuto per scongiurarne la chiusura hanno sempre funzionato.