L’aura sulfurea che ha circondato Toni Negri non si è certo dissolta con la notizia della sua scomparsa. Così come non si è problematizzata quell’adesione mitica che certa sinistra, come abbiamo letto sul quotidiano “il manifesto”, continua ad attribuirgli senza l’ombra di una critica. E del resto proprio lo scenario culturale attuale, politicamente rattrappito, non aiuta a riflessioni più complesse e articolate. Il leader dell’autonomia padovana – quasi per un insieme di frustrazione e insoddisfazione, tipico di una certa matrice soreliana e di quegli intellettuali alla testa di colonne guerrigliere virtuali – compensava la propria natura elitaria con linguaggi militari e un’aggressività di facciata, con cui condiva le sue sofisticate analisi sul capitalismo cognitivo.
Da giovane militante del gruppo del Manifesto – forse l’unica comunità politica che all’epoca non subiva la suggestione della sua lucidità – lo incrociai nei primi anni Settanta a Milano, mentre tentava l’ennesimo innesto alchemico fra inesperti gruppi adolescenziali, che spingeva ad azioni dimostrative del tutto irrilevanti politicamente, ma penalmente irrimediabili per gli eventuali interpreti. Non aveva certo un approccio ammaliante e coinvolgente, come invece il suo compagno Oreste Scalzone, la cui istintiva e calda cordialità prevaleva sulle più dure contrapposizioni politiche. Scostante e altero, non concedeva nulla al suo interlocutore che, a sua volta, non aveva quasi mai voglia di sormontare la coltre di timidezza o disagio che rendeva sgradevole la comunicazione con il professore. Eppure Negri fu molto amato e seguito, così come odiato e contestato. Traspariva in lui, forse più che in ogni altro suo esponente, quella vorticosa stagione che individuiamo mitologicamente nel ’68. Essa inizia, come proprio la sua biografia spiega linearmente, nei primi anni Sessanta, con la rottura di “Quaderni rossi” e dell’operaismo, e si conclude, nella sua versione più militante, nel 1978 con il caso Moro e, due anni dopo, con la sconfitta operaia alla Fiat. Una stagione in cui tutto cominciò a correre – anche se non sempre nella stessa direzione e quasi mai in avanti.
La biografia intellettuale di Negri rappresenta, nel turbine caotico e ridondante del dibattito culturale e politico a sinistra, forse l’unica monade, per rimanere a una terminologia filosofica che lui praticava con padronanza assoluta, la cui traiettoria fu strettamente connessa a quello che lui stesso definì il clinamen del capitale. Intendendo con quel termine, come scrive nel testo che conclude la sua trilogia sulla società digitale – Imperium, firmato con Michael Hardt –, Comune: oltre il privato e il pubblico (Rizzoli, 2010), “l’elemento che interviene a deviare la caduta degli atomi dal loro corso ordinario e che in questo modo determina un evento”. Il clinamen è, politicamente, la rottura che muta la natura del capitalismo, costringendo il suo avversario epico, il proletariato, a mutare a sua volta nel conflitto sociale comportamenti, strategia e strumentazione.
Già dalla prima esperienza con Raniero Panzieri, Negri si distingue dall’altro grande padre nobile dell’operaismo italiano, Mario Tronti. Tanto il secondo era teso a cogliere gli effetti politici del conflitto sociale, che ipotizzava sempre e comunque animato dai due soggetti primari – capitale e lavoro – che rimanevano fondamentalmente interpreti dello stesso copione, che la rappresentanza politica avrebbe dovuto poi gestire e forzare nell’azione rivoluzionaria, tanto il primo, invece, sulla base di una formazione filosofica legata a una lettura di Spinoza, si applica a una sorta di etnografia delle relazioni sociali, in cui gli istinti, i bisogni, i sogni e le ambizioni si combinano in equilibri instabili, che ridisegnano costantemente la dialettica fra proprietà e dipendenti, sfruttatori e sfruttati.
La concatenazione di formule, testate, etichette, organizzazioni, che nascono e muoiono in seguito ai sussulti di questo dualismo, è praticamente infinita. Via via la divaricazione diventa sempre più radicale sui temi e cruda nelle relazioni. Si induriscono le differenze e si azzerano i sentimenti. Negri, nel guazzabuglio dei gruppi, coglie subito, largamente prima di Tronti, il buco nero in cui si sta cacciando una politica sempre più avulsa dai processi di trasformazione della proprietà e dalla potenza mobile del capitale; mentre Tronti forza la sua idea di “autonomia del politico” come scorciatoia per portare all’incasso, in termini di governo del sistema, il volume dei conflitti e del ribellismo del decennio che ha alle spalle. Una deriva che lo porterà a dialogare addirittura più facilmente con la destra comunista di Napolitano, che nel 1978 a Padova, proprio nel ridotto dove Negri esercita le sue milizie di strada, consegna la tessera del partito a Tronti e a Cacciari.
In discussione, ormai, non è più il compromesso storico, seppellito dall’assassinio di Moro, ma la bussola per orientarsi nei primi processi di trasformazione industriale, e soprattutto nell’insorgenza di chiari fenomeni di atomizzazione sociale che la convergenza fra l’onda montante dei consumi individuali, con i linguaggi pervasivi della comunicazione di massa, sta disegnando nelle ex città operaie. È il momento in cui affiorano teorie e visioni sociali che il marxismo tradizionale aveva sempre esorcizzato, negando addirittura che Marx avesse prodotto un testo quale i Grundrisse, occultato dallo stalinismo e ignorato dall’ortodossia comunista, anche quando alla fine degli anni Sessanta viene tradotto e stampato. Attorno a quelle pagine, si declinano i filoni, di matrice anglo-americana, non legati alla scolastica sovietica, che lavorano rovesciando la sociologia della destra atlantica che, già negli anni Cinquanta, con la Rand Corporation e i saggi di Vannevar Bush, dava forma alle prime ideazioni di modelli economici immateriali, in cui la produzione manifatturiera era sempre più separata dal lavoro, e i saperi scientifici e tecnici diventavano la fucina del nuovo valore.
Romano Alquati, con la sua ricerca all’Olivetti, e appunto Negri, con le sue analisi intorno alla commistione fra consumo e alterità operaia, cominciano a scavare nella pancia del neocapitalismo. La città diventa ai loro occhi la vera fabbrica, il consumatore un produttore di valore, il giovane studente una figura nodale da sottrarre al controllo capitalistico, il desiderio appare come una leva di ribellioneda eccitare e organizzare, il lavoro diventa sempre più occasionale e momentaneo, passaggio per il reddito, la pietra miliare attorno a cui contendere, mentre sempre più l’obbligo sociale della produzione appare una coercizione a cui sottrarsi.
E nel 1962, in un convegno dell’Istituto Gramsci, persino il Pci mise il naso in questo inedito groviglio, da cui si ritrasse con il riflesso d’ordine imposto da Amendola, che capì subito dove le intemperanze analitiche dei giovani talenti – Bruno Trentin, Lucio Magri, Lucio Libertini, Vittorio Foa – potevano condurre. In quella occasione, l’ultima – secondo Rossana Rossanda (che peraltro, già nel 1956, nel n. 25 del “Contemporaneo”, aveva levato la sua voce critica in un saggio intitolato La ricerca e la politica, denunciando “l’incapacità del movimento operaio di comprendere gli sviluppi della nuova realtà che esso stesso aveva contribuito a creare con la sua pressione e le sue lotte”) – in cui il futuro camminava accanto ai comunisti, proprio guardando a quanto accadeva a Ovest e non a Est, si comprese come fosse il consumo a riclassificare i ruoli sociali, e come si riarticolasse l’organizzazione capitalistica con nuove figure e nuove funzioni professionali. Quella finestra fu chiusa, e si ostruì ogni possibile trasmissione degli impulsi innovativi dalle ali estreme a un centro di elaborazione di massa. Chi capiva rimaneva rinchiuso in ambiti radicali ed elitari, chi aveva la rappresentanza di massa preferì non capire. Negri era uno dei testimonial della prima categoria.
La parentesi ’68-’69, con la connessione operai-studenti, camuffò il tramonto da alba: ci si illuse di vedere una centralità operaia, mentre si automatizzavano le linee di montaggio e si decentravano i reparti di produzione del tessile e del siderurgico. Il ’77, il cosiddetto anno che non finì, fu la cassa di risonanza delle posizioni dell’operaismo sociale, che dai libri divennero pratica quotidiana, guerriglia urbana. E si sparò per meritarsi un posto sulla scena. I cattivi maestri, che dovevano sporcarsi le mani, non distinsero il grasso delle macchine dal sangue degli esseri umani. Si maneggiava, con cinismo e spregiudicatezza, il disagio degli esclusi: quella società dei due terzi, descritta magistralmente da Peter Glotz, che individuava, in un terzo escluso e marginalizzato dallo sviluppo, il potenziale di un contrasto politicamente non mediabile.
Negri mette materialmente le mani in quel crogiolo di frustrazione e disperazione, e ne trae materia per il suo partito dei dannati, guidato da élite universitarie. Un contrasto stridente, che rende plausibile, e comunque non socialmente contrastata l’inchiesta del 7 aprile, che incarcera tutto lo stato maggiore di Autonomia operaia. Si apre la stagione di Negri prigioniero, che lo porta, con le inevitabili contorsioni e compromessi di chi cerca di uscire dalla cella, alla candidatura con i radicali e alla successiva fuga a Parigi.
Per la nostra testimonianza di quale funzione abbia avuto Negri e come ci sia stato utile il suo pensiero, pur avendo chiaro quale approdo delirante ne fosse la conseguenza, diventa fondamentale e naturale conclusione la già citata trilogia Imperium, in cui, con Michael Hardt, analizza in maniera impareggiabile le dinamiche sociali e politiche della società computazionale. Negri, a differenza della sinistra tradizionale ancora paralizzata dallo stucchevole dualismo fra apocalittici o integrati, con grande disinvoltura e agilità di pensiero, smonta e rimonta i meccanismi digitali con l’approccio di chi, convinto del materialismo scientifico, considera ogni forma sociale la conseguenza di bisogni e interessi degli utenti, e mai una realtà extrasensoriale costituita da imprevedibile magia o pura malvagità umana, com’è evidente ancora oggi in chi reagisce all’intelligenza artificiale. Negri coglie, marxianamente, con straordinaria dimestichezza la natura intrinseca dell’antropologia della rete, individuando quello che descrive come un limite del capitale prima che del fronte di classe avverso. Esemplare la sua sintesi delle dinamiche digitali: “In altri momenti storici, il capitale ha saputo mantenere uniti la forza lavoro e il comando sul lavoro, per dirla in termini marxiani, è stato capace di costituire una composizione organica tra capitale variabile (la forza lavoro salariata) e il capitale costante. Oggi assistiamo a una profonda rottura della composizione organica del capitale, una decomposizione progressiva in cui il capitale variabile (in particolare la forza lavoro biopolitica) è separata dal capitale costante e dai dispositivi politici di comando e controllo. Il lavoro biopolitico tende a generare proprie forme di cooperazione e produce il valore sempre più autonomamente”.
Nel mio Avevamo la luna: l’Italia del miracolo sfiorato vista 50 anni dopo (Donzelli, 2013), in cui ricostruisco i termini del dibattito a sinistra sulla modernità dai primi anni Sessanta, riferendomi ai ragionamenti di Negri e Hardt, aggiungo: “I due autori nel loro libro sembrano osservare la rete dal di sotto, cogliendone il carattere di sistema sociale, prima ancora che di piattaforma tecnologica, dove si annodano relazioni e si sprigionano conflitti fra soggetti del tutto inediti rispetto alla scolastica liberale o marxista. Alla loro elaborazione si deve la più lucida sintesi della materialità del cambio di paradigma di cui tanto si parla nell’analizzare il nuovo scenario economico”.
E per meglio inquadrare proprio il cuore dell’approccio di Negri basta leggere, nella prima pagina del libro Comune, come focalizzare il nodo politico che Internet ieri, e l’intelligenza artificiale oggi, pone alla sinistra: “Con il termine ‘comune’ intendiamo, in primo luogo, la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura – che nei testi classici del pensiero politico occidentale è sovente caratterizzata come l’eredità di tutta l’umanità da condividere insieme. Per comune si deve intendere, con maggior precisione, tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici le informazioni, gli affetti e così via”. Una descrizione, questa, che muta radicalmente lo scenario sociale in cui collocare le categorie fondamentali della dialettica politica – la produzione, il conflitto, il valore – dando forma e sostanza a strumenti di intervento sociale nei confronti del dispiegarsi della potenza di calcolo oggi contemplata passivamente. Siamo, con Negri, ormai fuori dal recinto della fabbrica fordista, distanti dalla centralità di una combinazione di fattori materiali nella produzione di valore, estranei a figure sociali caratterizzate dal rapporto diretto con le macchine della produzione, del tutto decentrati rispetto alla contraddizione capitale/lavoro. Siamo nel cuore del nuovo processo di produzione di valore, quello che Manuel Castells chiama “informazionalismo”, in cui si creano “informazioni mediante informazioni” e, lungo questa catena, prende forma il valore sociale. Un cambio di quantità e qualità delle modalità in cui si dispiega il capitalismo. Una forma in cui non solo mutano le relazioni, cambiano i soggetti sociali della contesa, perché la stessa configurazione della relazione fra i protagonisti sociali diventa oggetto e soggetto della produzione.
In questo nuovo contesto, in cui appunto la relazione fra individui è la macchina produttiva, il capitale perde centralità e potere. Questo è il dato innovativo che dà conto dei processi geopolitici di questi decenni, che hanno visto un inesorabile logoramento delle rendite di posizione sia degli Stati capitalisticamente centrali sia delle imprese dominanti sul mercato, come pure di interi settori capitalisticamente emblematici. Ritornare su queste potenzialità, liberarle da ogni inquinamento insurrezionalista e scioccamente belligerante, e tuttavia attivarne le opzioni di protagonismo sociale, è il compito che dovrebbe darsi una sinistra moderna. Sicuramente, comunque vada, è il contributo che ci lascia un uomo che non ho motivi per piangere, ma di cui dichiaro con forza l’importanza in vita e il rammarico politico per la sua scomparsa.